Camillo di Christian RoccaCowboy democratici

Il nuovo libro di Maurizio Molinari

Maurizio Molinari, corrispondente della Stampa da New York e profondo conoscitore degli arcana imperii della politica americana, ha scritto per gli struzzi Einaudi “Cowboy democratici – Chi sono e in che cosa credono i liberal che vogliono conquistare la Casa Bianca e cambiare il mondo”. Il libro è un prezioso manuale per seguire le elezioni primarie di queste settimane che alla fine porteranno alla scelta del candidato del partito democratico alla Casa Bianca, ma è anche una chiave di lettura politica delle varie anime della sinistra americana, molto utile in vista della sfida del 4 novembre con i repubblicani per raccogliere l’eredità di George W. Bush.  Molinari ritrae i protagonisti del mondo liberal con attenzione e curiosità e racconta le due coalizioni informali che all’interno del partito si battono per l’egemonia progressista: da una parte ci sono la sinistra-sinistra (Nancy Pelosi, Howard Dean, Ted Kennedy), i radicali (Michael Moore, Noam Chomsky, la peace mom Cindy Sheehan, il rapper Kanye West), i neogreen (Al Gore, Tom Vilsack, John Podesta) e i neopopulisti (John Edwards, George Soros), dall’altra quelli che con felice intuizione Molinari chiama “cowboy democratici” (Hillary e il mondo clintoniano, Barack Obama, il governatore del Montana Brian Schweitzer e i libertari del west, Joe Lieberman, Alan Dershowitz, Michael Walzer, gli intellettuali antitotalitari e i veterani dell’Iraq). I primi puntano sul viscerale odio anti Bush, i secondi “hanno i loro cavalli di battaglia nella sicurezza nazionale, la difesa dell’America da un altro possibile 11 settembre, il recupero della fede e dei valori tradizionali, la promozione della democrazia contro ogni totalitarismo”. Molinari spiega senza infingimenti che soltanto un’alleanza tra lo zoccolo duro per i liberal e i centristi potrà consentire alla sinistra americana di tornare alla Casa Bianca, ma solo a patto che questa alleanza progressista sia guidata da un cowboy democratico. Il modello è quello del 2006, quando alle elezioni di metà mandato i democratici hanno riconquistato il Congresso. L’anno precedente, scrive Molinari, i due leader Nancy Pelosi e Harry Reid hanno cominciato a costruire “una nuova coalizione democratica capace di tenere assieme la sinistra radicale, il movimento anti guerra, i finanziatori di Hollywood, l’élites intellettuali della California, di New York e del New England con quanti più moderati, veterani e imprenditori possibili”. Il merito è stato anche di un ambizioso deputato di Chicago, il clintoniano Rahm Emanuel, il quale ha selezionato un gruppo di candidati in grado “di fare concorrenza ai repubblicani sul loro stesso terreno: lotta al terrorismo, diritto di portare armi da fuoco, limitazione del diritto d’aborto, argini agli spesa pubblica e lotta alla corruzione”. Il Senato è stato sottratto al controllo dei conservatori grazie alla scelta di candidare in Virginia, Pennsylvania e Montana dei veri e propri “cowboy democratici” che avrebbero potuto tranquillamente presentarsi con i repubblicani se la linea di Karl Rove non fosse stata quella di puntare su personaggi con spiccati curriculum conservatori in grado di galvanizzare la base evangelica. La stessa cosa è accaduta nei collegi della Camera scippati ai repubblicani. Infine c’è stato il clamoroso caso di Joe Lieberman, il vice di Al Gore, l’uomo che con ogni probabilità oggi sarebbe alla Casa Bianca al posto di Dick Cheney se nel 2000 una manciata di voti della Florida fosse stata conteggiata in modo diverso. All’inizio del 2005, l’ala radicale del partito ha avviato una rumorosa e ben finanziata campagna contro Lieberman, giudicato troppo vicino a Bush sulle questioni di sicurezza nazionale e sulla necessità di trovare una soluzione vittoriosa alla guerra in Iraq. L’armata di blogger e militanti pacifisti è riuscita a sconfiggere Lieberman alle primarie del Connecticut, cacciando di fatto il senatore dal partito. Lieberman, da vero cowboy, s’è candidato da indipendente alle elezioni generali del 2006 e da solo ha facilmente sconfitto il candidato radicale Ned Lamont che l’ala progressista del partito avrebbe voluto mandare a Washington al posto suo. “In una nazione divisa a metà fra liberal e conservatori – scrive Molinari – i democratici moderati riescono a riconquistare il centro, intercettando voti repubblicani in fuga dagli errori commessi dall’Amministrazione Bush nella gestione dell’intervento in Iraq”. E’ lo stesso tipo di campagna elettorale che stanno conducendo Hillary Clinton e Barack Obama, al contrario dell’arrabbiato John Edwards. Hillary, ricorda Molinari, parla di “diplomazia robusta da affiancare all’uso della forza per costruire coalizioni internazionali capaci di combattere la proliferazione nucleare, sconfiggere il terrorismo e far avanzare la libertà”. Barack Obama, invece, “invoca Dio e pluralismo, suggerendo un sentiero comune per religiosi e non”, indicando “l’esigenza di superare gli steccati tra fede e politica come antidoto a ogni fondamentalismo”. Alle elezioni presidenziali di novembre, uno dei due, Hillary o Obama, guiderà l’arcipelago liberal contro l’avversario repubblicano. Comunque vada, avverte Molinari frenando l’entusiasmo preventivo della sinistra italiana, sappiate che sarà sempre un cowboy democratico. (Christian Rocca)

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