New York. Hillary Clinton aveva cominciato la sua campagna elettorale presidenziale in modo “nice”, gentile, puntando sulla sua esperienza, sulle sue capacità, sulla sua organizzazione e costruendo intorno alla sua candidatura un’aura di inevitabilità, quasi fosse il presidente uscente più che il candidato del cambiamento di regime. Il messaggio era chiaro: c’è da chiudere la parentesi di George W. Bush e nessuno meglio di un altro Clinton è in grado di farlo. Hillary era l’unica che non criticava gli avversari democratici, che invitava all’unità, che smussava le differenze politiche tra i candidati e ogni volta che gli altri colleghi la attaccavano non rispondeva, quasi a voler sottolineare la sua superiorità e a ricordare di essere dotata di una corazza politica che negli ultimi sedici anni è riuscita a tenere testa alla “vast right-wing conspiracy” dei repubblicani.
Senonché in Iowa è stata malamente battuta da Barack Obama. Da quel momento in poi è cambiata la sua strategia. Hillary ha mostrato un lato più umano della sua personalità, ha fatto scendere in campo suo marito Bill e, soprattutto, ha adottato i metodi della “Clinton Machine”, il più formidabile e temibile apparato politico americano insieme con l’armata dei Bush.
Barack Obama è rimasto tramortito dall’impatto, non solo perché ha perso le primarie in New Hampshire e i caucus in Nevada, ma perché ormai ogni cosa che dice gli viene distorta e rinfacciata ed è sempre costretto sulla difensiva. L’ex stratega dei Clinton Dick Morris, ora loro acerrimo nemico, ci aveva visto giusto, quando subito dopo la sconfitta in Iowa aveva pronosticato che Hillary avrebbe cominciato a usare la carta razziale contro Obama, suggerendo sotto voce che un nero non avrebbe alcuna chance di essere eletto presidente degli Stati Uniti. Ovviamente Hillary e Bill non l’hanno detto apertamente – anche perché non lo pensano, semmai lo temono – ma sono riusciti ugualmente a sollevare un polverone sul tema della razza, da farlo diventare centrale nel dibattito politico delle ultime tre settimane. I Clinton, insomma, hanno ricordato all’America che Obama è nero.
Un’operazione politica geniale e cinica, con qualche rischio di potersi alienare le simpatie dell’elettorato afro-americano. Il controllo del danno potenziale è stato affidato a Bill Clinton, il quale ha trascorso intere mattinate al telefono dello show radiofonico di Al Sharpton, uno dei capi della comunità nera d’America, a testimoniare la sua piena fedeltà alla causa degli afro-americani. Del resto Clinton se lo può permettere, visto che è stato “il primo presidente nero” secondo la celebre definizione del premio Nobel Toni Morrison (lunedì sera Obama ha detto che prima di poterlo chiamare “fratello” avrebbe bisogno di “investigare un po’ di più sulle capacità danzanti di Bill”. “Possiamo organizzare”, ha risposto Hillary).
Lunedì, in diretta televisiva, al dibattito presidenziale della South Carolina, dove si vota sabato, lo scontro è stato durissimo. Hillary e Obama erano così vicini e arrabbiati da essere stati sul punto di venire alle mani. “Si sono saltati alla gola” era ieri il titolo di apertura del giornale The State di Columbia, in South Carolina, in seguito al più violento e cattivo dibattito di questo ciclo elettorale.
Hillary ha accusato Obama di aver espresso ammirazione per le idee repubblicane degli ultimi venti anni, ma il senatore dell’Illinois ha smentito spiegando che, semmai, in quegli anni di politiche reaganiane lui lavorava come volontario nei quartieri malfamati di Chicago: “Mentre io lavoravo per strada e assistevo questa gente che vedeva il proprio lavoro andare all’estero, tu Hillary eri invece un avvocato d’affari membro del consiglio di amministrazione di Wal-Mart”, la società nota per i prezzi bassi e odiata dalla sinistra perché paga poco i suoi dipendenti. Hillary ha risposto con un’ulteriore accusa: “Io mi battevo contro queste idee, mentre tu facevi il praticantato e rappresentavi il tuo finanziatore Rezko nel business di palazzinaro di ghetti nelle periferie di Chicago”.
I due avevano studiato le debolezze dell’avversario. Hillary, in particolare, ha criticato il record legislativo di Obama in Illinois e i suoi voti a favore delle lobby delle carte di credito al Congresso. Obama è rimasto in difesa, lamentandosi che Hillary continua a falsificare le sue posizioni e in particolare a manipolare un suo elogio a Reagan. “Non ho mai citato Reagan”, ha detto Hillary. “L’ha fatto tuo marito”, ha risposto Obama. “Be’, qui ci sono io, non lui”, ha ribattuto Hillary. “Molte volte non sono in grado di dire chi è il mio avversario”, ha detto Obama.
Christian Rocca
23 Gennaio 2008