Il movimento conservatore americano ha un problema serio, ma anche un patrimonio di vitalità che gli consente di sperare ancora in una vittoria presidenziale nel prossimo novembre. I suoi leader si ispirano a Ronald Reagan, provano a imitarlo, a renderlo ancora attuale, malgrado siano trascorsi ventotto anni dalla sua prima elezione alla Casa Bianca. Gli elettori, almeno stando alle indicazioni delle primarie, sembrano invece meno ossessionati dall’inseguire questa eredità e meno preoccupati.
L’idea dominante nell’élite conservatrice è che soltanto tornando alla radice ideologica della Right Nation il partito repubblicano potrà rinverdire i fasti di una volta e superare la crisi di stanchezza post Bush. La battaglia quindi è sulla vera definizione di conservatorismo reaganiano. Il dibattito ideologico che ne è scaturito ha però indebolito il movimento, perché l’ossessiva ricerca della purezza assoluta ha portato a restringere la definizione di vero conservatore, fino a escludere di fatto tutti i candidati repubblicani alla presidenza degli Stati Uniti. Oggi, se si parla con i professionisti della politica repubblicana di Washington, dicono che John McCain non è un vero conservatore, soltanto perché ogni tanto devia dall’ortodossia di partito, sui temi dell’immigrazione, del surriscaldamento terrestre, del finanziamento alla politica, del rapporto con la religione. Dicono anche che Mike Huckabee, ex predicatore battista, sia poco meno di un liberal su immigrazione clandestina, tasse e intervento pubblico, e che Rudy Giuliani sui temi sociali sia un democratico.
David Brooks, sul New York Times, ha scritto che improvvisamente “è diventato necessario passare alcuni test di purezza, sull’immigrazione, sull’aborto, sulle tasse e su Terri Schiavo”. Secondo l’editorialista conservatore del New York Times, “si è stabilita una mentalità d’opposizione per cui, se i liberal sono preoccupati dal surriscaldamento terrestre, allora è necessario pensare che il global warming sia una farsa; oppure, se il New York Times è preoccupato da alcune tecniche estreme di interrogatorio, allora il codice conservativamente corretto richiede che si pensi che vadano bene”.
Gli apostati e i deviazionisti vengono espulsi e, scrive Brooks, i confini del conservartorismo accettabile diventano rigidi e stretti. La stessa cosa era accaduta ai tempi della decisione di invadere l’Iraq, quando una copertina del National Review aveva descritto “conservatori antipatriottici” coloro che si erano opposti, da destra, alla destituzione di Saddam. Dall’altra parte, l’ala isolazionista del partito s’è lamentata allo stesso modo del tradimento dei valori conservatori operato da George W. Bush e dai suoi, mentre di recente, la rivista di Pat Buchanan, “American Conservative”, ha ritratto Rudy Giuliani in uniforme fascista.
David Brooks stesso, dopo questa sua column pubblicata martedì, è stato definito un finto conservatore da Mark Levin sul blog della National Review, “un conservatore alla William Safire (ex speech writer di Nixon e trentennale colonna conservatrice sulle pagine degli editoriali del New York Times, ndr), uno che si sente in obbligo di mostrare ai redattori di estrema sinistra del suo giornale di essere un ‘nuovo tipo di conservatore’, cioè un non-conservatore”.
Anche George W. Bush, tra il 1999 e il 2000, si era autodefinito “un nuovo tipo di conservatore” e aveva proposto un modello nuovo di conservatorismo compassionevole, capace di utilizzare lo strumento principe della filosofia di governo liberal, cioè l’intervento dello stato, per promuovere politiche conservatrici e rinnovare la Right Nation. Lo stesso principio di chiusura mentale che oggi porta a mal sopportare i repubblicani moderati o fuori linea ha scatenato nella galassia intellettuale del partito una ricca pubblicistica contro il conservatorismo solidale di Bush, definito “un tradimento” dell’ideologia repubblicana. Un tradimento di sinistra, al contrario di quanto scrivono in ambienti liberal. Mike Gerson, ex speech writer di Bush, ha scritto un libro (“Heroic Conservatism”) provando a tirare le fila della filosofia di governo bushiana, ma le critiche maggiori le ha ricevute da opinionisti e commentatori di destra, convinti che il “conservatorismo compassionevole” (impegno a favore dei poveri, dei malati di Aids e degli oppressi) abbia sbancato le casse federali e distrutto la destra americana.
Eppure nel 2000 Bush è stato capace di vincere e di battere il vicepresidente uscente Al Gore, l’uomo che portava in dote otto anni di boom economico e di relativa pace internazionale, proprio perché è riuscito a rinnovare la tradizione reaganiana del suo partito, adeguandola ai suoi tempi, al contrario di quanto aveva fatto quattro anni prima Bob Dole, sottraendo peraltro alla sinistra la battaglia a favore delle classi sociali meno abbienti, un po’ come negli otto anni precedenti Bill Clinton aveva governato appropriandosi delle grandi idee repubblicane di riforma del welfare, di attenzione alla spesa e di responsabilità fiscale.
La lezione di Bush non è servita e oggi i leader di destra continuano a restringere il cerchio del perfetto conservatore fino a ridurlo alla figura di Dick Cheney. Scrive Brooks: “Molti non considerano Mike Huckabee o John McCain come veri conservatori”. La star delle talk radio di destra, Rush Limbaugh, di recente ha detto che se uno di questi due vincerà la nomination, distruggerà il partito repubblicano, lo cambierà per sempre, anzi sarà la fine”. La stessa cosa dicono i leader della destra religiosa, come James Dobson, il capo dell’ala libertaria, Ed Crane del Cato Institute, e il guru anti tasse Grover Norquist.
Tutto questo in nome di Ronald Reagan, il quale però era un leader conservatore aperto, che riusciva a vincere in stati moderati, al punto che la chiave del suo successo e appeal elettorale è stata l’aver convinto a votare per i repubblicani i cosiddetti “Reagan’s democrats”, una larga fetta di classe lavoratrice ed elettorato di sinistra stanca delle vecchie ricette stataliste e del pessimismo liberal. Il paradosso è che questa lezione reaganiana, non quella propagandata dall’ortodossia repubblicana, è stata colta perfettamente da Barack Obama. Il senatore nero, nonché aspirante candidato democratico alla Casa Bianca, ha detto, tra le critiche dei Clinton e del mondo liberal, che “Ronald Reagan ha cambiato la traiettoria dell’America in un modo che né Richard Nixon né Bill Clinton hanno fatto. Ci ha messo su un cammino fondamentalmente diverso, dopo gli eccessi degli anni Sessanta e Settanta e il peso dello stato cresciuto a dismisura… Reagan ha toccato ciò che la gente stava già sentendo, ovvero la nostra voglia di chiarezza, di ottimismo e di un ritorno al senso di dinamismo e di intrapresa che ci era mancato”.
A differenza di molti leader repubblicani impegnati a dissezionare le proposte politiche di questo o quel candidato conservatore per valutare il grado di purezza reaganiana, Obama si candida a essere il nuovo Reagan prendendo da Reagan la carica di ottimismo e di speranza con cui poter convincere democratici, indipendenti e repubblicani a voltare pagina. Vista la reazione durissima in casa democratica alle parole di Obama, anche il mondo liberal ha un problema serio e, come l’intellighenzia conservatrice, sta combattendo una battaglia di retroguardia. La rivoluzione reaganiana, come ha detto Obama, ha consentito al partito repubblicano di diventare “negli ultimi dieci o quindici anni il partito delle idee”.
Obama ovviamente non condivide molte di quelle idee alla base della Right Nation, malgrado i Clinton stiano provando a far credere il contrario, ma riconosce che quelle idee “hanno sfidato le convenzioni comuni” e fatto crescere l’America. Il reaganismo ha creato i “nuovi democratici” di Bill Clinton, come il thatcherismo ha creato il New Labour di Tony Blair, e poi anche il neoconservatorismo di Bush. Ora Obama crede sia arrivato il suo turno e con la stessa carica ideologica e unitaria si candida a rilanciare l’America.
In questa stagione di primarie, la linea dell’establishment repubblicano non è stata seguita dagli elettori repubblicani. Gli elettori della South Carolina, uno degli stati più conservatori dell’Unione, hanno scelto John McCain. Scrive Brooks: “Mentre numerosi conservatori con la puzza sotto il naso minacciano di trasferirsi in Idaho se Huckabee o McCain vincono la nomination, la silenziosa maggioranza degli elettori conservatori sembra amare questi candidati. Huckabee ha fatto molto bene tra gli elettori evangelici, malgrado abbia deviato rumorosamente dall’ortodossia economica dei conservatori. John McCain è in testa ai repubblicani a livello nazionale con il 71 per cento di gradimento”. La lezione, secondo Brooks, è che il partito repubblicano, malgrado il suo attuale stato di salute, resta un partito con varie anime e con un elettorato a cui non dà fastidio avere candidati che la pensano in modo indipendente: “C’è spazio per i moderati e i conservatori ortodossi. Limbaugh, Grover Norquist e James Dobson hanno influenza, ma non sono gli arbitri della dottrina conservatrice”. Ci sono vari conservatorismi, non uno solo, aggiunge Rod Dreher: “Non si può prendere un unico catechismo conservatore e trovarci una dottrina che forma e lega la coscienza dei conservatori contemporanei. Una cosa del genere non esiste, questa è una scuola di pensiero politico, non una religione”.
Bill Kristol, sul Weekly Standard, ha definito il fenomeno che colpisce le élites repubblicane “la nostalgia di Reagan”, un errore che sta distorcendo buona parte della discussione politica della destra: “E’ stupido aspettare un altro Reagan, ma non solo perché le sue abilità politiche sono rare, ma anche perché c’è una cosa eccezionale di Reagan che molti dimenticano: è stato l’unico presidente del secolo scorso a essere stato eletto in quanto leader di un movimento ideologico”. I presidenti americani solitamente sono politici, con una visione ideologica non sempre coerente. Talvolta, spiega Kristol, diventano un veicolo per un movimento ideologico, come sono stati Franklin Roosevelt, John Kennedy e George W. Bush. In questo senso, quest’anno i repubblicani sono rientrati nella norma e presentano candidati con caratteristiche che possono piacere o no ai conservatori. “Respiriamo profondamente, giudichiamo di meno questi individui, rendiamoci conto che la venuta di un secondo Reagan è improbabile e prendiamo esempio dai liberal”. L’esempio, secondo Kristol, è questo: i grandi campioni del partito democratico sono stati Theodore Roosevelt, Franklin Roosevelt e John Kennedy, ma nessuno dei tre era l’alfiere delle idee liberal prima di entrare alla Casa Bianca. Lo sono diventati una volta dentro l’Ufficio Ovale.
Christian Rocca
24 Gennaio 2008