New York. Il New York Times è “il giornale dei record”, il numero uno, il più affidabile, quello che fa tendenza. Di recente ha completato il trasferimento dallo storico edificio sulla 43esima strada al nuovo grattacielo sull’ottava avenue disegnato da Renzo Piano, ha ridotto il formato, riorganizzato alcune sezioni, assunto nuovi editorialisti, liberato i vecchi dal peso di dover essere letti a pagamento su Internet e si sta preparando con meticolosità mista ad apprensione alla sfida epocale che prima o poi gli lancerà il nuovo Wall Street Journal di Rupert Murdoch.
La concorrenza col Journal sarà tosta perché l’obiettivo del magnate australiano è quello di spodestare il Times dal ruolo di unico quotidiano di interesse nazionale capace di influenzare le élite del paese, la politica, i network televisivi, i giornali locali e il resto del mondo. Il giornale di Wall Street partirà da una posizione ben più debole rispetto al Times, intanto perché è principalmente un giornale economico, poi perché le sue condizioni finanziarie non sono floride. Murdoch l’ha pagato cinque miliardi di dollari, meno di quanto ha sborsato per il sito Internet Facebook.com (ha comprato MySpace.com), ma le spalle finanziariamente coperte da News Corp. e il notorio killer instinct dello Squalo assicurano che sarà una partita davvero aperta.
La situazione dei giornali in America è pessima. I vecchi modelli di business non funzionano più, chiudono gli uffici di corrispondenza, tagliano gli staff (ieri il Chicago Sun-Times ha annunciato di aver licenziato il 19 per cento della redazione), attirano meno pubblicità e perdono soldi. Anche il Times è un po’ malconcio, ma resta l’unica eccezione positiva insieme col Wsj e il Washington Post. L’aspetto finanziario però è solo uno dei pilastri che reggono un grande giornale. L’altro è l’identità e qui cominciano i guai.
(segue dalla prima pagina) Il Wall Street Journal, almeno nelle sue pagine degli editoriali, è da sempre la voce della Right Nation, l’enclave politica e culturale dei conservatori in un mondo mediatico dominato dalle idee liberal diffuse proprio dal New York Times. L’arrivo di Murdoch, la sinergia con gli altri giornali del gruppo e l’apporto di forze fresche garantiscono al Wsj continuità, solidità culturale e maggiore interconnessione con l’arcipelago della destra conservatrice.
Il modello New York Times negli ultimi anni invece ha cominciato a vacillare, preso in mezzo tra le solite accuse della destra e il nuovo sentimento populista dei liberal, rintracciabile sui blog, nella crisi del clintonismo e nello spostamento a sinistra del baricentro della politica del Partito democratico.
Il Times, per esempio, è il principale responsabile della diffusione dell’idea di una inevitabilità della vittoria di Hillary alle primarie, dimostratasi errata e sconnessa con la realtà del mondo liberal. Con l’eccezione del suo columnist conservatore David Brooks, quasi non ha preso sul serio la candidatura di Barack Obama, scatenando alla sua sinistra ulteriori sospetti, malgrado i principali editorialisti del giornale, tranne Paul Krugman, si siano schierati con il senatore nero. La stessa cosa era avvenuta ai tempi in cui si preparava la guerra in Iraq, quando è stato proprio il Times a convincere il paese che Saddam avesse arsenali di armi di distruzione di massa e che fosse pronto a usarli. Sballottato di qua e di là, il New York Times è alla ricerca di una sua identità che però non sembra trovare. Le pagine degli editoriali si sono radicalmente spostate sul fronte progressista e ieri erano irrispettose nei confronti di Hillary Clinton, ma sono allo stesso tempo quelle che affiancano a un neocon come Brooks anche il suo amico e mentore Bill Kristol, con una mossa che ha stupito tutti.
E’ chiaro che il Times voglia prevenire l’offensiva del Wall Street Journal, e così si spiega anche la doppia direzione del Book review e dell’inserto di idee domenicali affidata al conservatore dal volto umano Sam Tanenhaus. E’ altrettanto evidente che voglia allacciare un rapporto con il nuovo sentimento di speranza e di cambiamento che circola intorno a Barack Obama, pur non volendo tranciare quello che lo lega all’epoca d’oro clintoniana. Ma da qui all’identità ce ne corre. (chr.ro)
10 Gennaio 2008