I grandi giornali sono quelli che cercano di avviare sulle loro pagine un dibattito culturale, che ingaggiano un confronto di opinioni e che competono nel mercato delle idee. In quattro righe questa è l’essenza del liberalismo applicato al giornalismo e probabilmente, come ha scritto Tyler Brulé sul Financial Times, anche una buona ricetta per fermare l’ormai cronica emoraggia di copie. La Repubblica è uno di questi giornali, fondato con lo scopo preciso di combattere una battaglia di modernizzazione nel paese. L’impegno di Ezio Mauro a mantenere questo status è evidente, come dimostrano la sezione di approfondimento culturale “Diario” e la scelta di comprare, tradurre e rubricare sotto la testa “le idee” articoli e opinioni pubblicate dai grandi giornali stranieri. C’è una cosa, però, che non torna e che diventa clamorosa nel momento in cui il liberal New York Times annuncia di aver assunto l’editorialista neoconservatore Bill Kristol: su Repubblica c’è una conformità di opinioni e idee che un grande giornale non si può permettere. Sul quotidiano confezionato a Largo Fochetti manca il confronto, non c’è un vero dibattito, non circolano idee opposte nemmeno d’importazione (malgrado l’acquisto dei diritti in esclusiva per l’Italia, non capita mai che Rep. pubblichi una delle vocicontrocorrente del New York Times). Non c’è più nemmeno la formula “diverso parere” che un tempo Eugenio Scalfari aveva coniato per ospitare la rubrica di Alberto Ronchey. Bill Kristol non è semplicemente uno che ha idee diverse da quelle del Times, è un conservatore convinto che il giornale di New York sia “irredimibile” e meritevole di essere processato per alto tradimento. Il capo delle pagine delle opinioni del Times ha motivato la scelta dicendo che non bisogna avere paura di ascoltare l’altra campana e che, anzi, è da intolleranti non dare voce a un intellettuale serio e rispettato con idee diverse. E il suo giornale ha già tra i suoi editorialisti fissi un altro neocon come David Brooks e per anni ha ospitato tre articoli a settimana di William Safire, l’ex speech writer di Richard Nixon. Nell’America del giornalismo che combatte battaglie civili, questa è la regola. Il Washington Post fa scrivere sette conservatori, Krauthammer, Broder, Will, Hoagland, Novak, Kagan e Gerson, quest’ultimo nientemeno che l’autore dei discorsi di Bush. Il Los Angeles Times pubblica il neocon Max Boot e Jonah Goldberg, figlio di una dei personaggi chiave dello scandalo Lewinsky e autore di un libro che si intitola “Fascismo liberal”. Newsweek ha fatto un contratto a Karl Rove. A quando un Bill Kristol per Repubblica?
5 Gennaio 2008