Camillo di Christian RoccaIl culto della personalità di super Obama

I sostenitori lo considerano una specie di Messia, ma tra i liberal qualcuno è preoccupato da tanto fervore. Prima analisi della sfida con McCain

di  Christian Rocca

Barack Obama ha vinto altre tre primarie, in Virginia, in Maryland e a Washington. John McCain anche. A questo punto è probabile che a novembre saranno loro due a sfidarsi per la successione a George W. Bush. I due senatori ormai corrono con il vento a favore, ma cominciano ad affiorare i primi dubbi sulla prestazione che saranno in grado di offrire alle elezioni generali. La nomination di McCain è pressoché certa, anche perché non ha più avversari, se non un distaccatissimo Mike Huckabee. Quella di Obama è molto più in bilico, ma ora è lui ad avere su Hillary Clinton un vantaggio di delegati e di soldi. In pochi giorni Obama è riuscito nell’incredibile impresa di resistere alla potenza della Clinton machine nel super martedì e poi ha vinto, una dietro l’altra, otto primarie. Altre due, Wisconsin e Hawaii, le vincerà da qui alla fine del mese, portando la striscia vincente sul dieci a zero. Hillary potrà recuperare in Texas e in Ohio il 4 marzo, dove oggi è in netto vantaggio, e successivamente in Pennsylvania, ma la sua strategia elettorale ricorda quella non proprio fortunata di Rudy Giuliani. L’ex sindaco di New York aveva puntato tutto sulla Florida, ma in attesa che si aprissero le urne, ha perso malamente in tutti gli stati precedenti, sbriciolando il vantaggio che gli assicuravano i sondaggi. La macchina di Hillary è più rodata e affidabile di quella di Giuliani, ma il “momentum” di Obama, cioè l’inerzia positiva della sua campagna, sembra inarrestabile. E’ probabile che la partita si decida in zona Cesarini, con le primarie a Portorico del 7 giugno ed è possibile che i cosiddetti superdelegati (gli oltre 700 tra eletti e personalità del partito) ribaltino l’esito alla convention di fine agosto, a Denver.
Barack Obama sembra inarrestabile, ma comincia ad avere un problema potenzialmente serio: la sua appare sempre meno come una campagna politica per la presidenza degli Stati Uniti, sempre più come una rivoluzione spirituale, come dice lui stesso, “per guarire le ferite del paese”. L’obamamania, in sostanza, è a un passo dall’essere un vero e proprio culto della personalità, la versione YouTube dell’adulazione fanatica e totalitaria del leader divino che libera, redime e salva le masse. A sostenerlo, timidamente e no, sono importanti intellettuali e opinionisti americani di sinistra, da Paul Krugman a Joe Klein, i quali sul New York Times e sul settimanale Time dicono di essere davvero preoccupati dall’eccitazione impolitica dei suoi fan e dalla piega che sta prendendo la sua formidabile campagna.
Va bene tutto: l’entusiasmo, la passione, il sogno. E, poi, il superamento delle tensioni razziali, la voglia di cambiamento, l’abbraccio ecumenico e bipartisan. Ma il fenomeno Obama ha trasformato il candidato Obama in un messia, in un santo, nell’uomo dei miracoli, in una via di mezzo tra il nuovo Kennedy e il nuovo Padre Pio. “Yes we can”, noi ce la possiamo fare, ripete Obama alle folle esaltate ed emozionate che gli urlano “I love you, Barack” e sempre si sentono rispondere “I love you back”. L’ottimismo, la speranza e la figaggine impareggiabile di Obama ispirano, commuovono ed emozionano. La gente accompagna in coro le parole pronunciate da Obama, trattiene a stento le lacrime, si abbraccia e si tiene la mano in un’atmosfera che ricorda i concerti rock nei palasport e le funzioni religiose delle megachiese battiste. Obama fa sempre lo stesso discorso, con poche variazioni e mai senza l’aiuto del gobbo elettronico (il teleprompter). Non entra nel dettaglio di proposte politiche, ciò che conta è il gospel, l’ispirazione, la parola, non il contenuto. A Obama si perdona tutto, la vaghezza propositiva, la goffagine professorale quando è costretto da Hillary a entrare nello specifico, qualche piccola bugia contenuta nella sua biografia, i finanziatori imbroglioni, i favori immobiliari, il predicatore e consigliere razzista che dà di “prostituta” a Condi Rice, i colpi bassi agli avversari, l’idea di invadere il Pakistan per catturare Osama bin Laden, il corteggiamento dei voti evangelici e un sostenitore che giudica l’omosessualità “una condanna divina”.
A Obama si perdona anche una certa cafonaggine anti Hillary, espressa di recente al Senato, quando ha palesemente evitato di salutarla, e poco prima a un dibattito televisivo, quando con sufficienza mista a senso di superiorità le ha detto: “Sei abbastanza simpatica anche tu, Hillary”. Il primo, a sinistra, a parlare del culto della personalità di Barack Obama è stato Paul Krugman, guru economico del New York Times e fustigatore senza pietà della presidenza Bush. Krugman da mesi è impegnato in una battaglia personale contro Obama, a proposito del piano di copertura sanitaria proposto dal senatore e giudicato insufficiente dall’economista. Krugman, inoltre, crede che il messaggio bipartisan e unitario di Obama sia ingenuo, anzi letale per le speranze progressiste, perché a Washington il presidente Obama dovrà fare i conti con la potente macchina repubblicana e con i poteri forti, entrambi non interessati a rinunciare ai loro interessi. Krugman è andato oltre, accusando la campagna di Obama di usare tattiche elettorali simili a quelle di uno dei presidenti più odiati dalla sinistra americana, Richard Nixon, e un po’ anche a quelle di Bush. Sia Hillary sia Obama sono intelligenti, preparati e affascinanti, ha scritto Krugman, ma il clima avvelenato di queste settimane è dovuto principalmente ai sostenitori di Obama, i quali vogliono il loro eroe o nessun altro: “Non sono il primo a dire che la campagna di Obama sembra pericolosamente vicina a diventare un culto della personalità. Lo abbiamo già visto con l’Amministrazione Bush. Davvero vogliamo ricascarci?”.
Joe Klein, sul settimanale Time, ha raccontato con ammirazione la capacità di Obama di entusiasmare i suoi seguaci con discorsi ben scritti e centrati sul pronome “noi”, anziché su “io”, ma ha aggiunto: “Eppure c’era qualcosa che faceva un pizzico di paura in quel messianesimo di massa – ‘noi siamo quelli che stavamo aspettando’ – del discorso del supermartedì e nella recente svolta della campagna di Obama. La sua campagna è interamente centrata su Obama e sulla sua capacità di ispirare la gente. Invece di concentrarsi su una questione o una causa specifica – diversa da un amorfo desiderio di cambiamento – il messaggio è diventato pericolosamente auto-referenziale. La campagna di Obama è troppo spesso centrata su quanto sia meravigliosa la campagna di Obama”. Secondo Klein, questo è uno dei motivi per cui il senatore nero non riesce a conquistare la working class bianca, cioè la base dell’elettorato del Partito democratico, e non è capace di trovare un argomento, una questione, una proposta che lo differenzi veramente da Hillary Clinton.
I blog conservatori prendono in giro l’obamamania e avvertono gli elettori repubblicani di non guardare mai negli occhi Obama quando parla, perché è chiaramente dotato del potere di ipnotizzare la gente con i discorsi simil evangelici di un carismatico e affascinante, ma falso messia. Ma anche un’opinionista di sinistra come Kathleen Geier, elettrice del senatore nero, avverte che “Obama non è Gesù”. La Geier scrive di essere diventata sospettosa di parecchi supporter del suo candidato: “Dovranno capire che Obama non sarà in grado di trascendere magicamente la partigianeria che sta dividendo il paese”.
I giornali raccontano le storie ammirate dei volontari della campagna elettorale di Obama, estasiati dall’incontro con il senatore: “Mi ha guardato e lo sguardo dei suoi occhi è valso mille parole”, ha detto una sua militante californiania. Obama l’ha abbracciata e le ha sussurato qualcosa all’orecchio, ma lei era troppo eccitata per ricordarsi che cosa. I volontari di Obama, secondo il San Francisco Bee, sono istruiti dall’organizzazione della campagna a convincere la gente raccontando la propria esperienza personale con Obama, magari “addolcendola” e rendendola più eccitante: “Lavorateci, affinate il vostro racconto, fate le prove allo specchio”, dicono le istruzioni, insieme a quella di non dare risposte sulle posizioni politiche del senatore e, semmai, per quelle, di rimandare al suo Web site. “Scusatemi, ma questa sembra più una setta che una campagna politica – ha scritto  la Geier sulla rivista Web Tpm Cafè – Il linguaggio usato è quello dei cristiani evangelici e i militanti parlano di Obama nello stesso modo in cui i cristiani rinati parlano della venuta di Gesù”.
Lo stratega democratico Dan Payne ha detto alla Cbs che “di lui non sappiamo molto. E’ quasi uno spirito. Alla gente piace la sensazione che prova quando si trova in sua presenza”. Sembra che parli di Gesù, invece racconta Obama, ha commentato il giornalista Charles Feldman. Il sondaggista Frank Luntz ha intervistato un campione di sostenitori di Obama e nessuno è stato in grado di dire che cosa avesse fatto Obama nella vita o quali fossero le sue posizioni. Sul Los Angeles Times il columnist satirico Joel Stein ha scritto che “l’obamafilia fa paura. Non ho capito se i due piazzisti che sono venuti alla mia porta domenica mattina avessero preso l’ecstasy o se stessero semplicemente fantasticando su una presidenza Obama, di certo ho avuto paura che stessero per abbracciarmi”. Stein, inoltre, ricorda che al di là dell’eccitazione che suscita, Obama resta comunque un politico, uno peraltro che non prende mai posizioni coraggiose o rischiose: è un politico così semplice e prudente da piacere addirittura a Oprah Winfrey”.
Se si digitano su Google le parole “Obama and Jesus” si trovano 849 mila risultati, 174 mila per “Obama and Messiah”. Sulla rivista online Slate, Timothy Noah tiene un “osservatorio messia Obama”, una spiritosa rubrica di segnalazione degli articoli che trattano Obama come se fosse il figlio di Dio. James Walcott, editorialista di Vanity Fair, ha raccontato di aver votato Hillary e non Obama perché “ho molti difetti e stranezze, ma non quella di essere un narcisista. Il mio voto non è su di me. Non è su chi sono, su che cosa penso di me stesso, su come il mio voto mi posizioni nello spirito del tempo. Non accetto lezioni o intimidazioni morali per votare un candidato invece che un altro al fine di provare i mie intenti virtuosi. Forse è il mio ateismo a venire fuori, ma mi sento sempre più guardingo e sospettoso nei confronti del fervore salvifico della campagna di Obama, dello zelo idealistico guidato da pura euforia e separato da qualsiasi idea o causa politica”.
Obama è consapevole di tutto ciò, sembra essere preso dal ruolo e pare credere alla sua stessa autopromozione. Martedì sera, in Wisconsin, ha detto ai suoi fan che la sua campagna sta mettendo insieme democratici e indipendenti e, sì, anche qualche repubblicano: “Lo so. Li incontro quando gli stringo la mano. Ecco, ce n’è uno proprio lì. E’ un ‘Obamacan’ (Obama + republican, ndr), noi li chiamiamo così”. Nella stessa serata, a El Paso, Hillary ha citato il proverbio texano “ha il cappello, ma non ha il bestiame”, una versione cowboy di “sei tutto chiacchiere e distintivo”. Hillary si riferiva a Bush, ma prima di citare il presidente ha fatto una pausa lunga abbastanza da costringere tutti a pensare a Obama.
Anche John McCain, nel suo discorso di vittoria di martedì notte, ha cominciato ad affrontare il problema del culto della personalità di Obama: “Io non mi candido alla presidenza con la presunzione di essere benedetto da una grandezza personale tale che la storia mi avrebbe unto per salvare il mio paese nel momento del bisogno. Mi candido con l’umiltà di un uomo che non può dimenticare che è stato il mio paese a salvarmi”. John McCain, però, deve fare i conti anche con la sua di personalità e con il suo carattere ruvido che lo porta spesso a cercare rogne, invece che a smussare gli angoli. Questo è un aspetto che lo differenzia molto da Obama e che potrebbe giocare un ruolo nella campagna elettorale presidenziale. Ma per il resto McCain è il candidato repubblicano speculare a Obama. Entrambi hanno una storia personale che desta ammirazione (“McCain è un eroe americano”, ha detto martedì Obama). Entrambi sono i più capaci di attrarre gli indipendenti e addirittura di sconfinare in territorio avversario. Sono molti i conservatori pronti a votare Obama e probabilmente ancora di più i liberal che apprezzano McCain, malgrado sulle questioni cruciali dell’etica, dell’economia e della sicurezza siano entrambi paladini inflessibili delle rispettive ortodossie di partito. Obama è il senatore americano più di sinistra, secondo l’annuale classifica compilata dal National Journal sulla base dei voti espressi al Congresso. McCain, considerata la sua carriera, è ai primi posti tra i conservatori. Gli esperti si interrogano su chi dei due riuscirà a ottenere il favore degli indipendenti e se a novembre prevarrà l’appello ai cristiano evangelici di Obama oppure la battaglia morale contro la tortura e il surriscaldamento terrestre di McCain. Il senatore repubblicano ha due vantaggi su Obama: con George W. Bush è l’unico repubblicano di grido favorevole a politiche pro-immigrazione e quindi capace di convincere una quota del crescente elettorato ispanico a votare per lui. Con Bush aveva funzionato e per molti versi è stato uno dei fattori decisivi delle sue vittorie elettorali. Gli ispanici votano tradizionalmente per il Partito democratico e per i cattolici Kennedy, ma Obama – nonostante il sostegno di Ted e degli eredi di Bob e John – continua a non convincere la maggioranza dei latinos e, quindi, per lui McCain è il peggior avversario possibile. McCain può contare anche sull’esperienza e sulla conoscenza delle questioni di sicurezza nazionale, a cui Obama può rispondere soltanto con la posizione pacifista di chi si è opposto fin dall’inizio alla guerra in Iraq. Ma, come ha scritto ieri il primo editoriale del Washington Post, sull’Iraq Obama (ma anche la Clinton) ha “una posizione datata e dogmatica” che “rifiuta in modo arrogante di riconoscere che il cambiamento della situazione in Iraq richiede un ripensamento del suo piano di ritiro di tutte le truppe americane”. Un cambiamento avvenuto grazie all’idea del “surge” di David Petraeus sponsorizzata da McCain.
Obama rispetto a McCain potrà far valere la giovane età e la voglia di cambiamento, avrà un Partito democratico che lo sosterrà compatto, con la malcelata eccezione dei Clinton. E’ stato lui stesso, Obama, con la consueta sicurezza di sé, a dire di essere certo che se sarà lui il candidato potrà contare sui voti di Hillary, ma di non essere altrettanto sicuro che i suoi voti andranno a Hillary se sarà lei la candidata democratica contro McCain. Il senatore repubblicano invece non ha una vera e propria base, se non quella dei reduci di guerra. Il Grand Old Party a poco a poco si adeguerà al candidato scelto dai suoi elettori in mancanza di un più lineare successore di Reagan e di Bush, ma i leader non lo sopportano, i militanti della Right Nation lo guardano con sospetto, gli evangelici lo avvertono come un estraneo e, infine, la sua grande speranza di avere come avversario Hillary Clinton, l’unica capace di rimobilitare la coalizione conservatrice, sembra essere svanita.

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