New York. L’anno della Summer of Love, Barack Obama ha compiuto sei anni. Ai tempi del maggio francese ne aveva otto. Al concerto di Woodstock non ha potuto partecipare, perché frequenteva le elementari in Indonesia. In Vietnam non ci è andato né ha disertato, perché quando l’ultimo soldato americano è tornato dall’Indocina, Obama era soltanto undicenne. Questa breve biografia del più straordinario candidato del Partito democratico alla Casa Bianca spiega molto del suo appeal e del suo linguaggio decisamente diverso da quello degli avversari. Barack Obama è il candidato del superamento della guerra culturale tra liberal e conservatori, ma ora che è il favorito alla nomination del partito democratico è improvvisamente diventato anche il candidato dei nostalgici di sinistra, dei vetero progressisti che non hanno intenzione di ritirare le proprie truppe da quella guerra. La novità della candidatura di Obama era quella di un politico nuovo che avrebbe chiuso la ruvida battaglia ideologica che divide l’America dagli anni Sessanta e di cui Hillary e Bill Clinton sono due dei principali combattenti. Il messaggio di Obama era rivolto a sanare le ferite del paese, imbarcare i conservatori e riunificare il paese, “perché non ci sono stati repubblicani e stati liberal, ci sono gli Stati Uniti d’America”.
Su questo punto, l’editorialista conservatore, ma pro Obama, Andrew Sullivan ha scritto un saggio sull’Atlantic Monthly dal titolo “Good-bye to all that”, “addio a tutto questo”: “La candidatura di Obama è potenzialmente rivoluzionaria. A differenza degli altri candidati, Obama può finalmente portare l’America a superare la debilitante, auto-alimentata lite di famiglia della generazione del Baby boom (quella nata nel ventennio successivo alla Seconda guerra mondiale, ndr) che per lungo tempo ha ingolfato tutti noi. La candidatura di Obama riguarda la fine della guerra che ha dominato fin dai tempi del Vietnam e che mostra pericolosi segnali di intensificazione. E’ una guerra civile non violenta che ha reso l’America invalida nel momento in cui il mondo ha più bisogno di lei. E’ una guerra sulla guerra, sulla cultura, sulla religione, sulla razza. E in questa guerra, Obama – soltanto Obama – offre la possibilità di una tregua”.
Uno dei più attenti osservatori delle cose del Partito democratico, Matt Bai, giornalista del New York Times, ha notato però come negli ultimi tempi l’atteggiamento sia cambiato. Obama s’è fatto trascinare dai nostalgici e dalle celebrità hollywoodiane che si battono per risvegliare lo spirito magico degli anni Sessanta o che non sopportano l’idea di essere stati troppo giovani per aver vissuto gli anni della contestazione, di peace & love. Da sostenitore del superamento di quella fase storica, Obama è diventato la connessione con il glorioso passato, con l’era dei Kennedy, con la stagione dei diritti civili. L’ironia della vicenda, spiega Bai, è che nel frattempo l’icona femminista Hillary Clinton è diventata la candidata “uncool”, non alla moda, l’unica che propone al paese un bagno di realismo e un pragmatismo post–anni Sessanta. Obama parla di speranza e cambiamento continuando a coinvolgere i giovani, ma anche facendo venire i lucciconi a chi era giovane quarant’anni fa. Clinton, invece, invita alla prudenza e spiega che esiste anche la “falsa speranza”. Obama ricorda il sogno di Martin Luther King, ma Hillary fa notare, tra lo sgomento dei suoi coetanei, che c’è voluto un pragmatico come Lyndon Johnson per trasformare in legge il sogno di Mlk. E’ probabile che la baby boomer Hillary non riesca a superare alle primarie il postideologico Obama, malgrado il senatore nero sia diventato il beniamino dei nostalgici dei figli dei fiori. Più avanti ci proverà con qualche argomento in più John McCain, il senatore repubblicano che quarant’anni fa era troppo impegnato a farsi torturare dai vietcong e a salvare i suoi commilitoni per poter partecipare a Woodstock.
17 Febbraio 2008