New York. Gli strateghi conservatori del Partito repubblicano hanno due svantaggi e un vantaggio rispetto ai colleghi democratici nel preparare un piano elettorale per far eleggere John McCain e portare per la terza volta consecutiva un presidente di destra alla Casa Bianca. Il primo svantaggio è il clima politico nettamente favorevole al Partito democratico, a causa della guerra in Iraq, dell’insicurezza economica e, in generale, della fisiologica stanchezza nei confronti di un presidente come George W. Bush che ha governato otto anni e diviso a metà il paese. Il secondo elemento sfavorevole è l’entusiasmo dei democratici per i loro due candidati, Barack Obama e Hillary Clinton, due leader liberal che, a differenza di John Kerry nel 2004, ma anche di Al Gore nel 2000, riempiono di orgoglio la base elettorale e fanno sognare a occhi aperti il ritorno a ere di progresso e di giustizia sociale. Il fenomeno si è visto in questa stagione di primarie, dove gli elettori democratici si sono presentati alle urne quasi sempre in numero doppio rispetto ai repubblicani, anche in stati solidamente conservatori.
Gli strateghi repubblicani, però, hanno un vantaggio: il partito ha già scelto un candidato, John McCain, anche se lo ha fatto turandosi il naso, e sa che a meno di una clamorosa rimonta di Hillary Clinton, l’avversario democratico sarà Barack Obama. Gli advisor di Obama, invece, probabilmente dovranno occuparsi di Hillary fino al 7 giugno, la data delle ultime primarie a Portorico, se non oltre, fino alla convention di agosto a Denver, anche se circolano voci di un possibile ritiro dei clintoniani la sera del 4 marzo in caso di sconfitta in Texas e Ohio.
La squadra di McCain sta preparando il piano strategico per la conquista della Casa Bianca intorno a cinque punti: mobilitare la base conservatrice, scegliere un vicepresidente che completi il profilo del candidato, prendere le misure all’avversario, valutare i suoi punti deboli ed essere competitivi anche in quegli stati della costa orientale e occidentale tradizionalmente liberal. I vertici della Right Nation sono ancora scettici nei confronti di McCain, continuano a guardare con sospetto la sua indipendenza di giudizio, il suo cattivo carattere e le sue posizioni poco ortodosse su immigrazione, finanziamento della politica, surriscaldamento terrestre eccetera. Il partito, dopo i dubbi iniziali, s’è schierato in modo abbastanza compatto con lui, ma resta ancora aperta la questione della base elettorale. Se McCain non riuscirà a coinvolgerla, a motivarla e a galvanizzarla, difficilmente il 4 novembre potrà vincere le elezioni.
Secondo Karl Rove, l’architetto delle vittorie elettorali di Bush, McCain dovrà occuparsi subito, già a marzo, di quest’aspetto decisivo e di elaborare una strategia complessiva anti Obama. Un aiutino a McCain è arrivato dal New York Times e dalla sua inchiesta su una presunta e smentita storia sentimentale del senatore con una lobbista, giudicata impubblicabile dallo stesso garante dei lettori del Times, che ha avuto l’effetto opposto di ricompattare il mondo conservatore contro la solita egemonia editoriale della sinistra.
(segue dalla prima pagina) La scelta del vicepresidente è altrettanto importante, più del solito. Al suo primo giorno da presidente, il 20 gennaio 2009, se McCain fosse eletto, avrebbe 72 anni, uno in più di quanti ne aveva Ronald Reagan all’inizio del suo secondo mandato. McCain scherza e ricorda che quel vecchietto è riuscito nella bazzecola di vincere la Guerra fredda, ma dovrà scegliersi un vicepresidente con un coerente curriculum conservatore per confortare la Right Nation, con una solida esperienza amministrativa per ovviare al principale dei suoi punti deboli, con uno spiccato interesse alle questioni economiche e di politica interna per bilanciare la sua predisposizione alla sicurezza nazionale, e infine sufficientemente giovane e carismatico da poter rappresentare già adesso il futuro del Partito repubblicano nel 2012. La scelta non sarà facile, ma gli analisti di Washington non parlano d’altro che delle liste dei papabili vice McCain che circolano di mano in mano in questi giorni di assestamento della sua candidatura.
Non meno decisiva è la questione Obama. Il team McCain sta cominciando a testare gli argomenti da usare contro il senatore nero alle elezioni di novembre, con l’avvertenza di stare molto attenti a non mettersi nella situazione di poter essere accusati di razzismo (o misoginia, se dovesse farcela Hillary). McCain corre meno rischi di qualsiasi altro repubblicano, perché non è il tipo che si trova a suo agio con gli attacchi personali, ma direttamente o no sarà costretto a ricorrervi. Il Comitato nazionale del Partito repubblicano ha commissionato in questi giorni una serie di sondaggi e di focus group per capire quali siano i limiti di una campagna politica contro un candidato di colore (o donna). “Giusto o no la realtà sarà questa – ha detto un consigliere di McCain a The Politico – La polizia del politicamente corretto sarà di pattuglia e i criteri saranno strettissimi”. C’è però chi, a destra, teme un approccio soffice e vittima del politicamente corretto: “Se McCain è preoccupato o timido nell’affrontare di petto Obama, vorrà dire che ha già perso la battaglia senza neanche cominciare”.
McCain sa quali sono i punti deboli di Obama e già adesso comincia a esporli nei suoi discorsi. E’ vero che l’Obamania è contagiosa, ma col passare del tempo pare mostrare i primi segni di stanchezza anche tra i suoi stessi sostenitori. Il primo editoriale del New York Times di domenica lo ha accusato, per la prima volta, di sostenere politiche economiche populiste e conservatrici. Lo stesso giorno, il Washington Post ha prima spiegato nel dettaglio statistico che non è vero che Obama avrà grandi speranze di vincere negli stati conservatori, poi lo ha accusato di essere “enigmatico” e di non aver ancora fatto capire che tipo di presidente sarà.
La vaghezza propositiva di Obama e la sua politica basata sul sogno più che sulla realtà sono dunque il punto centrale della strategia di McCain, come di Hillary. La Clinton non è riuscita a convincere gli elettori democratici che va bene fare campagna elettorale in modo poetico, ma che poi per governare c’è bisogno della prosa. McCain però ha qualche argomento in più. Intanto può attaccarlo da destra, poi può usare con maggiore naturalezza e competenza la carta della sicurezza nazionale, del patriottismo, del valore e finanche la questione della guerra in Iraq, essendo l’unico ad aver sostenuto la strategia di David Petraeus che in questi mesi ha cambiato l’inerzia della situazione sul campo. A differenza di Hillary, ha scritto Mark Halperin di Time, McCain può giocare sporco senza ripercussioni negative nel suo partito e può anche avvantaggiarsi da una campagna anti Obama senza censure, e non imbarazzata e a mezza bocca, come quella elaborata dai Clinton, sull’uso di cocaina, sul secondo nome “Hussein”, sulle amicizie radicali e sui ruvidi e potenzialmente imbarazzanti commenti di sua moglie Michelle sulle questioni razziali. Hillary ci sta ancora provando, come si intuisce dalla foto di Obama con turbante e in abiti da musulmano pubblicata da Drudge Report e fatta circolare dal suo staff. Hillary in questi giorni dice frasi tipo “vergognati, Barack Obama”, che prima o poi saranno usate negli spot repubblicani, così come non resterà clandestina la notizia che secondo il National Journal Obama è il senatore più di sinistra di Washington.
Un altro punto d’attacco dei conservatori, anche se avrà minore efficacia rispetto a come funzionò nel 2004 contro Kerry, sarà quello del flip flop, cioè della sua tendenza a cambiare posizione, dalla sanità alle questioni di politica estera, in particolare su Israele. Ralph Nader, l’uomo che candidandosi da indipendente nel 2000 fece perdere Al Gore, ha annunciato la sua candidatura, stavolta ancora meno influente del 2004 quando prese lo 0,4 per cento. Nader si è detto insoddisfatto di Obama proprio su Israele: “Fino a pochi anni fa era filo palestinese, ora è filo israeliano”.
Christian Rocca
26 Febbraio 2008