Camillo di Christian RoccaInizia la gara Obama contro McCain

New York. John McCain e Barack Obama sono già entrati nel clima della sfida presidenziale che, molto probabilmente, il 4 novembre li vedrà impegnati a contendersi la Casa Bianca e l’eredità di George W. Bush. La partita di fatto è già cominciata e le campagne dei due senatori si stanno riorganizzando di conseguenza e testano gli argomenti che quasi certamente saranno al centro dello scontro dei prossimi mesi. McCain si scatena contro “l’eloquente, ma vuota, richiesta di cambiamento” e si appropria del “we can” obamiano, a cui immancabilmente segue un più maschio “we will”, non soltanto “possiamo”, ma anche “faremo”. Obama, già accusato da Hillary di aver copiato un discorso dal governatore del Massachusetts, ogni tanto usa l’espressione più nota di McCain, “straight talk”, “parlar chiaro”.
McCain accusa Obama di essere un “ingenuo” sulle questioni di sicurezza nazionale, alimentando quella “strategia dell’esperienza” condivisa da Hillary ancora in questi suoi ultimi e disperati giorni di speranza di battere Obama, ma che finora non ha dato grandi risultati. Obama risponde spiegando che McCain non propone altro che le politiche fallimentari di Bush. McCain replica dicendo che Obama è addirittura più falco di lui, per esempio sul Pakistan, paese che il senatore nero sarebbe pronto a invadere. Obama sostiene che McCain abbia volutamente manipolato una sua dichiarazione che, invece, era riferita a raid militari per catturare Osama bin Laden.
Obama ribatte a McCain che ciò che conta non è l’esperienza, “nessuno a Washington aveva più esperienza di Dick Cheney e Donald Rumsfeld”, ma la capacità di giudizio e lui è stato l’unico a essersi opposto alla guerra in Iraq fin dall’inizio. McCain è d’accordo e ricorda, sostenuto anche da un recente editoriale del Washington Post, come Obama abbia sbagliato a giudicare fallimentare la scelta della Casa Bianca di inviare più truppe in Iraq, come invece aveva suggerito a lungo McCain.
Il senatore dell’Arizona si sente sicuro sui temi di politica estera, grazie anche al successo della nuova strategia militare irachena, il “surge”, guidata dal generale David Petraeus di cui McCain è stato a lungo l’unico sostenitore al punto che i democratici come John Edwards, per sfotterlo, chiamavano la nuova strategia di Bush “the McCain’s surge”. McCain è inoltre convinto che nel giorno delle elezioni presidenziali gli americani non perdoneranno a Obama e al Partito democratico di aver definito “persa” la guerra e di insistere nel non riconoscere il successo in corso del “McCain’s surge”.
Le due potenziali e belle first lady – la nera e la bionda, una di carattere forte, l’altra con un tragico passato di cure antidepressive – hanno cominciato a sferrare i primi colpi. Appena Michelle Obama s’è lasciata sfuggire una frase infelice in cui diceva di essere per la prima volta orgogliosa del suo paese, Cindy McCain ha subito replicato che lei, al contrario della moglie di Obama, è sempre stata e sempre sarà orgogliosa degli Stati Uniti d’America.
Poi c’è la questione dei soldi. McCain è uno dei crociati del contenimento dei costi della politica e della fine della commistione tra affaristi e membri del Congresso, nonché autore della legge che regola il finanziamento delle campagne elettorali.  McCain ha promesso in caso di vittoria alle primarie di accettare il finanziamento pubblico di 85 milioni di dollari per le presidenziali, rinunciando – come prevede la legge – alle ben più remunerative campagne di raccolta di finanziamenti privati. Mesi fa anche Obama aveva detto che avrebbe fatto questa scelta, coerentemente col suo messaggio di cambiamento dei costumi politici di Washington. Senonché Obama si è dimostrato un fenomeno nel fund-raising su Internet, raccogliendo quattro o cinque volte in più rispetto a McCain, e ora non vuole rinunciare a questo suo straordinario vantaggio. McCain, coniugando un suo principio a una sua oggettiva debolezza, ne sta facendo un tormentone sulla moralità, sul rispetto della parola data e su chi sia davvero il candidato del cambiamento coi fatti, non a parole.
Ieri, però, il New York Times ha pubblicato una lunghissima inchiesta, i cui contenuti erano noti da tempo, secondo cui otto anni fa McCain avrebbe indirettamente favorito i clienti di una lobbista, con cui forse aveva avuto una storia. Nell’articolo, smentito in ogni suo punto da McCain, non c’è nessuna accusa formale, nessun indizio di aver compiuto affari illeciti, soltanto il sospetto che la vicinanza della lobbista alle attività legislative di McCain possa aver favorito i clienti dell’allora 32enne Vicki Iseman. L’accusa più pesante è quella di aver infranto la promessa di non tornare a casa in Arizona volando sulla rotta Washington-Phoenix che lui aveva contribuito ad aprire con i suoi interventi al Senato, per non dare l’impressione che la sua battaglia fosse per puro interesse personale. L’altra pecca segnalata dal New York Times è quella di aver legalmente ricevuto 80 mila dollari in otto anni da una società di telecomunicazioni cliente della sua amica lobbista. Il Times aveva questa storia in cantiere da diversi mesi, ma per metterla in pagina ha aspettato la quasi ufficializzazione della candidatura di McCain e la cottura di un articolo pettegolo di New Republic di critica al giornale newyorchese per non voler più pubblicare l’inchiesta anti McCain. Questo blitz del Times favorisce Obama e rischia di compromettere la nitida immagine da guerriero anticorruzione di McCain, il quale peraltro già molti anni fa fu sfiorato da uno scandalo politico. C’è invece chi dice che la polemica in realtà aiuti McCain, perché gli consente di ricompattare il fronte conservatore fin qui scettico sulla sua candidatura nella battaglia contro l’egemonia culturale del New York Times e dei giornali liberal.
La stampa, però, dopo mesi di mattanza anticlintoniana, comincia a instillare i primi dubbi anche su Obama, accanto ai soliti articoli ammirati e a resoconti di ovazioni entusiastiche dei fan anche quando Obama si soffia pubblicamente il naso. Ma, per la prima volta, non sono più isolate e rare le critiche all’eccessivo grado di fervore messianico intorno alla sua campagna, alla sua vaghezza propositiva e alla sua fin troppo disciplinata ortodossia progressista che non si sposa col messaggio politico di unità e soluzioni bipartisan.
La nomination di McCain per il Partito repubblicano è cosa fatta, sebbene non ancora ufficiale. Obama è in vantaggio su Hillary tra i democratici e ogni giorno recupera punti in Texas e Ohio, dove il 4 marzo l’ex first lady ha le ultime chance di recupero in una campagna che fino a un paio di mesi fa sembrava poter controllare con facilità. Bill Clinton mercoledì sera è stato chiaro, parlando in Ohio ai sostenitori di sua moglie: “Se Hillary vince in Texas e Ohio penso che sarà la nominata, se voi non ci riuscite, non credo che lei ce la potrà fare. Dipende tutto da voi”.

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