New York. La data di scadenza del clintonismo, l’ambiziosa e controversa stagione politica che negli anni 90 ha alternato modi innovativi di governare a cinica tattica politica, è prevista il 4 marzo, quando il Texas e l’Ohio terranno le loro primarie per la selezione del candidato del Partito democratico alle presidenziali di novembre. Hillary Clinton, per ora, è in vantaggio di una ventina di punti su super Barack Obama, ma la formidabile campagna del senatore nero già in passato è riuscita a colmare in un battibaleno scarti altrettanto significativi. Se Hillary vincerà in quei due stati, avrà ancora qualche speranza di ottenere la nomination, a cominciare dal 22 aprile quando si voterà in Pennsylvania, fino al 7 giugno a Portorico.
Oggi Obama ha un vantaggio di un centinaio di delegati su Hillary, difficilmente recuperabili a meno di un improbabile crollo obamiano (l’ultimo sondaggio in Wisconsin, dove si vota martedì, dà i due appaiati). Obama si potrà permettere di perdere in Ohio e Texas, a patto che la differenza di voti non sia enorme (la ripartizione è circoscrizionale e proporzionale). Se addirittura dovesse vincere, per Hillary sarebbe finita, come dice anche il suo consigliere James Carville.
Il clintonismo è stata una stagione politica brillante e di successo. L’idea dei Nuovi Democratici era un approccio centrista di riforma della sinistra e del paese, in contrapposizione al radicalismo progressista che aveva condotto il Partito democratico a una lunga serie di sconfitte. La critica liberal al clintonismo era che mancasse di visione strategica, di idee per il futuro e che fosse più che altro una tattica elettorale e un modo di rendere i democratici più accettabili alla maggioranza conservatrice del paese. I conservatori detestavano il clintonismo per l’immoralità e il cinismo dei suoi comportamenti, visti ancora in questa campagna elettorale al punto che Obama ha dovuto ammettere di avere problemi seri ad affrontare il set di bugie, inganni e mezze verità diffuse dai Clinton nei suoi confronti. Agli occhi dei repubblicani, Obama ha il merito di aver fatto capire alla sinistra, sia pure con otto anni di ritardo, il motivo del loro odio.
Hillary ha ancora qualche possibilità di vittoria e comunque vada a finire non scomparirà dalla scena, anzi è probabile che diventi il leader al Senato. La sua campagna continua a raccogliere un milione di dollari al giorno, un po’ meno di quanto riesce a fare Obama. Da qui al 4 marzo dovrà convincere i finanziatori che non è finita e i democratici che lei “è nel business della soluzione dei problemi”, mentre Obama in quello delle semplici “promesse”. La senatrice ha cambiato il vertice della sua campagna, quello che aveva puntato sui grandi stati, ignorando i più piccoli. Il risultato è stato che in quelli grandi la differenza è stata minima, mentre in quelli piccoli Obama ha vinto con percentuali di venti o trenta punti, aggiudicandosi la maggior parte dei delegati. Gli uomini di Obama dicono che, matematicamente parlando, Hillary non potrà superare il gap di cento delegati. I clintoniani non negano, ma credono di poter ridurre il margine a poche unità. A quel punto Hillary ha due possibilità. La prima è chiedere che alla convention di Denver siano riammessi i rappresentanti del Michigan e della Florida che erano stati puniti dal partito per aver fissato le elezioni prima del supermartedì. In quegli stati il partito ha vietato di fare campagna, ma si è votato lo stesso e ha vinto Hillary. La seconda è convincere i quasi 800 superdelegati, gli eletti e le personalità del partito, a scegliere lei perché, come dimostra un sondaggio Rasmussen di ieri, ha più possibilità di battere McCain negli stati in bilico, come l’Ohio. Obama chiede che i superdelegati non ribaltino l’esito del voto, i clintoniani spiegano che potrebbero scegliere in linea con il risultato nei loro stati di appartenenza. Un modo per dire che la nomination spetta a lei, avendo vinto gli stati più grandi, dove ci sono più eletti e superdelegati.
15 Febbraio 2008