Camillo di Christian RoccaObama, il messia

New York. Quando Barack Obama parla, la gente si abbraccia, piange, sviene. Le sue parole suscitano emozione, passione e fervore. “L’atmosfera ai suoi eventi – ha notato il quotidiano The Australian – è di quelle da chiedersi se da un momento all’altro Obama arriverà sul palco con un cesto di pani e pesci con cui nutrire migliaia di bisognosi”. I suoi sostenitori non si comportano da militanti, ma da discepoli che sentono il bisogno di condividere con i non credenti la loro esperienza personale e di diffondere il verbo di colui che i giornali ormai chiamano “il messia”. Der Spiegel ha messo il “fattore messia” in copertina. New Republic l’ha ritratto con l’aureola. Il Weekly Standard l’ha definito “Sant’Obama”. I direttori dei giornali, dice al Foglio un cronista americano al seguito di Hillary, danno indicazioni ai propri giornalisti di smitizzare l’invincibilità della gioiosa macchina da guerra clintoniana, ma di raccontare quanto sia meravigliosa e “inspirational” la campagna di Obama.
Yes, he can. Barack Obama potrà certamente vincere la nomination del partito democratico per la Casa Bianca, a maggior ragione dopo le primarie e il caucus in Wisconsin e alle Hawaii di ieri notte, ma dovrà cominciare a guardarsi dalla crisi di rigetto, da quella che ieri sul New York Times David Brooks ha definito “la sindrome del ritorno alla realtà” che prima o poi i suoi fan cominceranno ad accusare (il primo sintomo è il senso di colpa nei confronti di Hillary). Brooks stesso ne è in qualche modo vittima, essendo stato uno dei primi conservatori a salutare, sul Times, la novità della campagna di Obama e ad apprezzare il messaggio unitario e bipartisan del senatore nero. Ora Brooks chiama Obama “Sua Speranzosità” o “l’Eletto” e spiega come, dopo aver passato tutte le estasiate fasi dell’Obamamania, coloro affetti da questa sindrome cominciano a chiedersi se tutto ciò in realtà abbia senso, specie se a fronte di tutte le belle parole sull’unità e sulla bipartisanship, Obama poi al Congresso abbia sempre votato nel modo più partigiano possibile (è il senatore più liberal, secondo il National Journal) e abbia sempre rifiutato, al contrario di John McCain, di partecipare alle iniziative di compromesso sui giudici, sull’intelligence e sull’immigrazione. “I discorsi di Obama stanno diventando stancanti”, ha scritto l’Economist confermando la tesi di Brooks.
“Obama è un messia o è il messia?”, si chiede Claire Hoffman sul blog “Under God” del Washington Post. “Barack Obama ha un complesso messianico e nessuno potrà togliermelo dalla testa”, ha scritto Jonathan Stein sulla rivista radicale Mother Jones. Secondo Stein, Obama è così preso da sé e dal suo messianesimo da essere pronto a riscrivere la storia degli Stati Uniti come un susseguirsi di eventi epocali che partono con la rivoluzione americana, continuano con il destino manifesto, l’abolizionismo, le suffraggette, la greatest generation, il movimento dei diritti civili e finiscono con lui stesso. “E’ davvero un po’ troppo”, ha scritto Stein.
Non è troppo per Chris Matthews, il solitamente impenetrabile e tosto conduttore di Hardball sulla Msnbc. Quando parla di Obama, invece si illumina: “Ho cominciato a seguire la politica a cinque anni e non ho mai visto niente del genere. E’ un fenomeno più grande di Kennedy. Quando Obama appare sembra avere le risposte. E’ il Nuovo Testamento. E’ sorprendente”, ha detto al New York Observer. E, ancora, in televisione: “Quando ascolto i suoi discorsi sento un brivido alle gambe… voglio dire, non mi capita molto spesso… davvero… è un evento drammatico. Lui parla dell’America in modo che non ha nulla a che fare con la politica”. Affermazioni entusiastiche come questa di un giornalista navigato e profondo conoscitore del potere come Matthews hanno convinto guru progressisti come Paul Krugman a parlare di “culto della personalità” e giornalisti liberal come Joe Klein di Time e James Walcott di Vanity Fair ad avvertire “un pizzico di paura in questo messianesimo di massa” e qualche sospetto “nei confronti del fervore salvifico, dello zelo idealistico guidato da pura euforia e separato da qualsiasi idea o causa politica”. Obama fa poco per fugare questi dubbi, anzi spesso pare credere nel suo stesso culto. A una cena di raccolta fondi a Hollywood, quando l’attore Morgan Freeman gli è venuto incontro, Obama ha detto: “Quest’uomo è stato presidente prima di me”, riferendosi alla parte che Freeman ha interpretato nel film “Deep Impact”, ma anche ribadendo il suo ruolo di predestinato. Subito dopo, sempre rivolto a Freeman che in un’altra occasione aveva intepretato il padreterno in “Bruce Almighty”, ha detto: “Questo uomo è stato Dio prima di me”.
Questa e altre citazioni obamiane e dei suoi fan si trovano su un sito americano, obamamessiah.blogspot.com, che tasta il polso dell’impazzimento per il nuovo messia. Così si legge che l’ex candidato presidenziale Gary Hart crede che Obama “non operi sullo stesso piano dei politici ordinari, lui è un agente di trasformazione in un’era rivoluzionaria, è la figura politica più qualificata per aprire le porte del 21esimo secolo”. Il direttore del New York Times, Bill Keller, lo paragona a Nelson Mandela, Andrew Sullivan a Ronald Reagan, tutti gli altri a entrambi i Kennedy e a Martin Luther King. Secondo Stanley Crouch, editorialista afroamericano del New York Daily News, “Barack Obama invece è un bluesman di Chicago il cui grande palco non è un nightclub né un teatro, ma l’enorme podio nazionale dove si dibatte di politica”. Ezra Klein su The American Progress confessa che “i migliori discorsi di Obama non eccitano, non informano e nemmeno ispirano”, ma lo confessa per sottolineare che, invece, “elevano”. Secondo l’opinionista progressista: “Lui non è il verbo fatto carne, ma il trionfo della parola sul corpo. Obama al suo meglio è in grado di tirare fuori il meglio di noi”. Mary Mitchell del Chicago Sun-Times è addirittura convinta che con Obama alla Casa Bianca non ci saranno più le sparatorie all’Università, come quella di Virginia Tech. (chr.ro)

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