Camillo di Christian RoccaObama o mai più

New York. “Una corsa che sembrava inimmaginabile è diventata una realtà”, titolava ieri mattina il New York Times a proposito dell’entusiasmante vittoria a trentacinque secondi dalla fine della partita dei piccoli Giants di New York contro i potenti New England Patriots al 42esimo Superbowl di football, la più importante ricorrenza profana degli Stati Uniti. Il titolo del Times può tornare utile oggi, nel giorno del Superbowl della politica, il super martedì elettorale in cui ventidue stati americani scelgono con le primarie i due candidati democratici e repubblicani che si sfideranno il 4 novembre per la successione a George W. Bush alla Casa Bianca.
E’ un super tuesday di passione e tensione, soprattutto per Barack Obama e la sua formidabile candidatura alla presidenza degli Stati Uniti. Gli ultimissimi sondaggi dicono che tra i democratici il senatore nero è ancora dietro a Hillary Clinton, anche se in forte ripresa soprattutto in California (per il quotidiano Usa Today il vantaggio è stato “cancellato”). Gli esperti fanno i conti dei delegati, segnalano la frattura all’interno dei vertici del partito e sostengono che tra Obama e Clinton la partita potrebbe non chiudersi affatto stanotte, a meno di una clamorosa e improbabile vittoria dell’uno o dell’altra, ma che continuerà ancora nel weekend (Louisiana, Washington, Nebraska, Maine), il 12 febbraio (Virginia, District of Columbia) e il 4 marzo (Ohio e Texas).
Comunque vada a finire, Barack Obama è il vincitore di questa stagione politica. Il protagonista è lui. Il dibattito gira intorno alla sua figura. Il messaggio, i toni e la retorica del cambiamento sono i suoi. Obama è per tutti, anche per chi non la pensa come lui, il custode della speranza e l’uomo dei sogni dell’America 2008, un leader caldo e laicamente religioso che ispira milioni di connazionali ad accaparrarsi il futuro e a convincersi che “Yes we can”, sì, ce la possiamo fare a cambiare il paese.
L’entusiasmo scatenato dalla sua discesa in campo è palpabile, mai visto in tempi recenti. Nessuno dei suoi avversari può vantare l’esercito di giovani fan che gira orgogliosamente per le strade delle città americane con la sua spilletta attaccata sul bavero del cappotto. I sessantenni vedono in lui il nuovo Kennedy e tornano giovani. I repubblicani ne sono ammaliati e nel suo spirito ottimista, unitario e patriottico intravedono segni di Ronald Reagan. La nipote di Ike Eisenhower e l’editorialista conservatore Andrew Sullivan voteranno per lui, mentre l’ex capo del centro studi della Casa Bianca di George W. Bush, Pete Wehner, continua a scriverne meraviglie (domenica sul Washington Post).
Il fenomeno Obama ha toccato i pacifisti di MoveOn.org e i sostenitori della missione benefica dell’America nel mondo. I Kennedy stanno con lui, compresa Maria Shriver, moglie del governatore repubblicano della California Arnold Schwarzenegger, il quale sostiene John McCain. Tre influenti donne democratiche del mid e del south west, la governatrice dell’Arizon Janet Napolitano, la collega del Kansas Kathleen Sebelius e la senatrice del Missouri Claire McCaskill, hanno scritto un editoriale pro Obama sul Wall Street Journal invitando i democratici a confrontarsi con i repubblicani sul futuro sfruttando l’opportunià offerta da Obama di costruire una nuova maggioranza per il cambiamento.
Un gruppo di star del cinema, dello sport e della musica, da Scarlett Johansson a Kareem Abdul Jabbar a Herbie Hancock, ha registrato una canzone, e girato un video diffuso ieri su Internet, con il testo tratto da “Yes we can”, uno dei discorsi più famosi e ispirati di Obama, pronunciato la sera della sua vittoria in South Carolina di metà gennaio. Il testo del discorso messo in musica dalle star si incrocia e si sovrappone alla vera voce di Obama, a dimostrazione che il suo stile retorico è un’arte ispirata alla predicazione religiosa, ai cori gospel e alla musica soul.

I sospetti dei radical
Gli unici che guardano Obama con sospetto, a parte i clintoniani, sono i radicali di sinistra, i quali temono che la sua idea di “guarire le ferite del paese” coinvolgendo i repubblicani e i conservatori sia un’ingenuità destinata al fallimento e, forse, il segnale che alle elezioni generali il senatore rischia di essere travolto dalla macchina politica e organizzativa della destra. La fortuna di Obama è che alla sinistra radicale Hillary piace ancora meno.
Il rap anti obamiano dei Clinton, “bravo a fare campagna elettorale in poesia, ma una volta eletti si governa in prosa”, non funziona, perché come ha scritto Frank Rich sul New York Times, Obama come Kennedy parla al cuore di un’America che desidera essere salvata, rinnovata e cambiata. A peggiorare il giudizio sull’ex first lady ha contribuito anche la subliminale carta razzial-razzista giocata soprattuto da Bill, con la quale la “Clinton machine” ha provato a ricordare all’America che Obama non è il candidato che supera le differenze razziali, ma un nero che difficilmente potrà essere eletto presidente, anche se in realtà bisognerà aspettare i risultati di oggi per capire se i Clinton sono riusciti a spaventare l’elettorato bianco e a relegare Obama al ruolo di candidato afroamericano.
L’essenza della candidatura di Obama in realtà è esattemente opposta, malgrado le sue ancora irrisolte ambiguità del passato da radicale e del presente da frequentatore di una chiesa estremista di Chicago che celebra il black power in contrapposizione al razzismo dell’America bianca. Obama però entusiasma perché è il candidato che esprime anche biograficamente la volontà di superare la politica delle differenze razziali, che va oltre l’essere nero o bianco.
Il suo gospel più potente in gioco al super tuesday resta il messaggio unitario per cui “non ci sono giovani e vecchi, bianchi e neri, gay ed etero, ispanici, asiatici e americani nativi, non ci sono stati rossi conservatori e stati blu liberal, ma ci sono gli Stati Uniti d’America”.
Obama non arretra di un millimetro e, con la sua ormai consueta e irriverente opera di dissacrazione del mito dei Clinton, dice che se vincesse lui la nomination democratica sarebbe certo di prendere i voti di Hillary alle elezioni di novembre, ma non sarebbe altrettanto sicuro che i suoi voti andrebbero a Hillary se fosse lei la candidata democratica contro i repubblicani. E, inoltre, spiega ai democratici di essere il candidato meglio attrezzato a sfidare John McCain: “Se McCain è il candidato, il Partito democratico dovrà chiedersi: vogliamo un candidato che sull’Iraq ha una politica simile a quella di McCain o qualcuno che può offrire un contrasto assoluto?”.
Su questo, però, ieri è intervenuta la scrittrice femminista Erica Jong con un articolo sul Washington Post a favore di Hillary. Obama non ha esperienza, ha scritto la Jong, ed è stato contrario alla guerra in Iraq “soltanto perché è stato fortunato a non trovarsi al Senato quando la risuluzione di guerra è arrivata in aula dopo le bugie sulle armi di distruzione di massa dell’allora segretario di stato Colin Powell. Questa è stata la vera tragedia della razza: un uomo nero che ha mentito per un’amministrazione bianca che lo ha usato come una medaglietta, esattamente come usa adesso il segretario di stato Condoleezza Rice”. E, infine l’accusa di essere uno zio Tom: “Anche Obama è una medaglietta del nostro incompleto progresso verso una società interrazziale. Non ho niente contro di lui – ha scritto la Jong – se non la sua inesperienza. Anche molti elettori neri sono d’accordo. Conoscono le ‘medaglietta’ e sanno cos’è la condiscendenza”.

Il discorso unitario
Ieri, a mezzogiorno, Obama era con Bob De Niro all’Izod Arena di East Rutherford, subito al di là del fiume Hudson che separa il New Jersey dall’isola di Manhattan. Sabato sera, a St. Louis, erano in ventimila ad ascoltarlo. Ventimila anche a Minneapolis e quindicimila a Boise in Idaho, sette volte il numero delle persone che avevano votato nel 2004 in tutto lo stato. In Idaho, terra di conservatori e di cacciatori, Obama ha ricordato che crede in Gesù e nel pieno diritto a portare armi. “Frequento la stessa chiesa ed esprimo ammirazione per Gesù da venti anni” e “non ho nessuna intenzione di togliere le armi alla gente”, ha detto Obama in un discorso subito definito sui blog “God and Guns”, Dio e pistole.
Obama, in realtà, sia in Illinois sia a Washington ha sempre votato per limitare il diritto al porto d’armi, ma l’Idaho è terra di cacciatori. I blogger hanno notato che Obama ha fatto un’altra concessione alla gente conservatrice dell’Idaho. Nel suo discorso unitario e ottimista sul futuro dell’America che ripete a ogni fermata del suo giro elettorale nel paese, Obama ha rimosso un passaggio della sua promessa di unificare l’America bianca e nera, ispanica ed asiatica, conservatrice e liberal: non ha pronunciato le parole “gay ed etero”.

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter