C’è una regola ferrea che chi scrive dall’America è tenuto a rispettare: mai fare paragoni diretti con l’Italia, nemmeno ora che al Dipartimento di Stato qualcuno si è divertito a spiare sui passaporti di Barack Obama, Hillary Clinton e John McCain. Ma c’è che mi sono convinto che Obama sia quanto di più vicino esiste a Clemente Mastella. Mi spiego: il senatore nero dell’Illinois ha l’immagine del politico nuovo, rivolto al futuro, che fa sognare. Si presenta come l’unico capace di superare le differenze ideologiche, religiose e razziali del paese, come il candidato giovane, moderno e figo che ispira ottimismo, promuove belle idee e non infanga la nobiltà della politica con i trucchi delle tradizionali campagne elettorali.
Tutto vero. Obama è un genio politico, un talento naturale ancor più di Bill Clinton e dal niente è riuscito a conquistare l’America bianca e nera, conservatrice e liberal, laica e religiosa e a tramortire l’invincibile macchina da guerra clintoniana. Obama è elegante, parla in modo divino, scrive ancora meglio, sa fondere il linguaggio forbito della Harvard Law School con i sermoni popolari dei predicatori battisti del sud. E’ formidabile, magnetico, irresistibile. Epperò a seguirlo da vicino, ad ascoltarlo per bene, a studiare con attenzione la sua biografia e l’evoluzione delle sue posizioni viene fuori un ritratto diverso, quello di un politico-politicante tra i più cinici, uno capace di amicizie tra le più imbarazzanti e di acrobatiche disinvolture nel cambiare posizione, a seconda della convenienza del momento.
Nel brillante discorso sulla razza pronunciato per tappare la falla creatasi a causa della sua ventennale associazione con un reverendo che considera l’America razzista, assassina e responsabile di un piano di diffusione dell’Aids per sterminare i neri, Obama è riuscito a coinvolgere sua nonna materna, cioè la persona che l’ha cresciuto e fatto diventare chi è. Obama ha svelato che per quanto gli volesse bene, ogni tanto sua nonna si lasciava andare a commenti razzisti sui neri. Come a dire, la mia brava nonnina e quella specie di zio matto del reverendo Jeremiah Wright, uno che considera Condi Rice “una prostituta”, in fondo sono la diversa faccia di una stessa medaglia, di una storia del passato e di un’America divisa e ferita che lui si candida a unire e guarire.
Che Obama sia un politicante cinico, pronto a tutto pur di raccattare voti non deve stupire, del resto è un politico che s’è fatto le ossa nell’ambientino della Chicago democratica, notoriamente uno dei più corrotti e duri del paese. Il suo rapporto con l’imprenditore ardito Tony Rezko è un esempio. Rezko, oggi sotto processo, ha fatto un paio di favori immobiliari a Obama, richiesti dall’uomo dei sogni in persona per potersi allargare due volte la casa di Chicago. Rezko gli ha anche raccolto 250 mila dollari.
Il caso eclatante, però, è quello di Jeremiah Wright. Il reverendo non è solo l’uomo che gli ha fatto incontrare Gesù, che l’ha sposato e che ha battezzato le sue due figlie, è stato anche la chiave d’accesso alla comunità afroamericana di Chicago che, all’inizio della sua carriera politica, guardava con sospetto alle ambizioni di questo privilegiato e ben istruito figlio di una bianca del Kansas e di uno studente del Kenya. Ora che Wright non serve più, anzi è un problema, Obama l’ha messo da parte, spiegando che non è d’accordo con le cose indicibili che predica dal pulpito della United Trinity Church, dove però porta ogni domenica le sue bambine.
C’è la questione del Nafta, il trattato di libero scambio che Obama dice essere una delle cause della crisi economica e che promette di abrogare, mentre il suo principale consigliere economico riferisce al governo canadese che no, da presidente non abrogherà il Nafta, lo dice adesso perché gli servono i voti dei sindacati per battere Hillary.
La stessa cosa è successa con l’Iraq. Obama esalta il suo discorso anti guerra del 2002, quando non era senatore, in cui però diceva che Saddam aveva armi di sterminio, ma evita di ricordare che durante la campagna del 2004 per diventare senatore diceva che sull’Iraq “non c’è molta differenza tra me e Bush”. Una volta al Senato, quando s’è capito che il presidente era stato rieletto perché gli americani volevano vincere la guerra e a lui serviva costruirsi un profilo da statista, Obama ha votato per anni a favore del finanziamento della guerra e contro il ritiro delle truppe. Nel pieno del caos iracheno, a fine 2006, quando Bush ha inviato Petraeus e altri soldati in Iraq, Obama ha detto che la situazione sarebbe peggiorata, mentre ora che è migliorata dice che era ovvio che con più uomini le cose sarebbero andate meglio, ciononostante ora è per il ritiro, perché di questi tempi si porta di più ed è più facile convincere i democratici a scegliere lui anziché Hillary. E non importa, poi, se la consigliera di politica estera, Samantha Power, si sia lasciata sfuggire che, esattamente come con il Nafta, una volta eletto, Obama avrà bisogno di un altro piano, perché questo del ritiro è buono solo per la campagna elettorale.
Nessuno scandalo, la democrazia è questa, si fa di tutto per conquistare più voti possibili, ma l’intero punto della campagna di Obama è che lui non è come la fredda e calcolatrice Hillary, lui è il santo, il poeta, il messia che rifiuta di navigare con i metodi della vecchia politica. Invece è una versione cool di Mastella.
Christian Rocca
22 Marzo 2008