New York. In pochi giorni la formidabile campagna elettorale di Barack Obama ha mostrato tutta la sua inesperienza e anche pericolosissimi segnali di dilettantismo politico, tanto che ora i suoi principali fan, cioè i giornalisti al seguito, cominciano per la prima volta a chiedersi se non abbia davvero ragione Hillary Clinton a dire che il senatore nero dell’Illinois non è ancora pronto a guidare il paese. Il punto di svolta è stata la sconfitta in Ohio e in Texas martedì scorso, a cui sono seguite cinque o sei grossolani capitomboli politici che rischiano di compromettere le sue chance di conquistare i superdelegati del Partito democratico. Oggi probabilmente Obama vincerà le primarie nel Wyoming, ma la dinamica della campagna elettorale è cambiata.
I giornali, ieri, hanno dato risalto alle dimissioni di Samantha Power, da quattordici mesi il primo consigliere di politica estera di Obama e, di fatto, la sua Condoleezza Rice. Trentottenne, giornalista, vincitrice di un Pulitzer per un libro sui genocidi, assunta ad Harvard e poi da Obama, Power s’è dimessa dalla campagna dopo aver detto a un giornale scozzese che “Hillary è un mostro, pronta a tutto pur di ottenere la candidatura”. La frase anti Clinton ha fatto il giro del mondo, eppure la Power s’è dovuta dimettere per aver fatto un danno ancora più grave alla credibilità di Obama. Nello stesso giorno, alla Bbc, ha detto che una volta eletto presidente “Obama naturalmente non si affiderà ai piani sull’Iraq che ha preparato da candidato presidenziale o da senatore”. Cioè non ritirerà le truppe da Baghdad, al contrario di quanto sta dicendo in campagna elettorale.
L’intervistatore della Bbc le ha ricordato che sul sito di Obama c’è scritto che “farà rientrare una o due brigate al mese, in modo da ritirare dall’Iraq tutte le truppe combattenti in sedici mesi”. La Power ha spiegato che non sarà così: “La cosa che in realtà Obama ha detto, dopo aver incontrato generali e professionisti dell’intelligence è che solo nel miglior scenario possibile si possono ritirare una o due brigate al mese. Gli hanno detto questo. Ma lui rivaluterà la situazione una volta eletto presidente”. Le parole di Samantha Power sono di per sé ragionevoli, ma contrastano con quanto Obama sta dicendo in giro per l’America su un punto, l’Iraq, che è quello che lo differenzia di più da Hillary.
I clintoniani sono subito saltati alla gola di Obama, convocando un’improvvisa conference call, a cui Il Foglio ha partecipato, con il generale Wesley Clark e l’ex portavoce di Madeleine Albright, James Rubin. “E’ l’ora del dilettante”, ha detto Rubin, il quale però da consigliere di John Kerry nel 2004 ne aveva fatta una altrettanto grossa, dicendo che se nei quattro anni precedenti alla Casa Bianca ci fosse stato Kerry, invece che Bush, l’invasione dell’Iraq ci sarebbe stata ugualmente. “Non è una politica estera seria – ha detto il generale Clark – anzi è inquietante”.
Il punto, per Obama, è che il doppio scivolone della Power non è un caso isolato. Qualche giorno prima, il suo principale consigliere economico, il trentottenne professore dell’Università di Chicago, Austan Goolsbee, ha fatto la stessa cosa della Power, se non peggio, ma su un argomento diverso. Mentre Obama diceva agli elettori preoccupati dai segnali di recessione economica che da presidente avrebbe ritirato la firma americana dal trattato di libero scambio Nafta, il suo consigliere economico Goolsbee ha incontrato un diplomatico canadese rassicurandolo che no, quelle parole anti Nafta, non erano da prendere in seria considerazione, perché pronunciate in campagna elettorale e finalizzate a raccattare qualche voto in più.
Un altro suo consigliere di sicurezza nazionale, John Brennan, ha detto al National Journal che il presidente Bush ha ragione a voler garantire protezione legale alle società di telecomunicazioni che dopo l’11 settembre hanno cooperato con le attività antiterrorismo del governo. Obama, invece, ha votato contro, ma il suo consigliere ha detto che chiunque entrerà alla Casa Bianca il suo consiglio sarà quello di studiare, di prendersi il tempo di capire di che cosa stiamo parlando e di non dare risposte istintive.
Il danno per Obama è enorme, perché sui tre più forti temi di campagna elettorale, politica estera, sicurezza nazionale ed economia, i suoi principali advisor hanno detto che il candidato promette una cosa, ma è pronto a farne un’altra. Il messia, il santo, l’uomo nuovo Obama, insomma, sta per essere risucchiato nel vortice della politica politicante e il rischio concreto è quello di perdere tutto il suo appeal. La stampa comincia ad accorgersene, dopo l’infatuazione, e anche certe sparate radicali di Michelle Obama che prima passavano in cavalleria – “per la prima volta sono orgogliosa del mio paese” e “l’America è un paese cattivo” – iniziano a preoccupare.
La storia della campagna elettorale fin qui è stata quella del falso mito di invincibilità della macchina dei Clinton e della straordinarietà del messaggio obamiano. Hillary è riuscita a ribaltare il tavolo con lo spot della telefono che squilla delle tre del mattino: chi vorreste ci fosse a rispondere alla Casa Bianca mentre vostro figlio dorme e i servizi segreti chiamano il presidente per annunciargli un’imminente crisi di sicurezza nazionale? Gli elettori del Texas e dell’Ohio hanno risposto “Hillary”, sicché ora che è a un passo dalla vittoria Obama deve dimostrare di essere credibile con quella cornetta in mano. Senonché il suo staff ne ha fatta un’altra. Susan Rice, numero due della sua squadra di politica estera, ha detto che nessuno dei due, “né Hillary né Obama sono pronti a ricevere quella telefonata delle tre del mattino”. Hillary e, soprattutto, John McCain hanno ringraziato.
Christian Rocca
9 Marzo 2008