Camillo di Christian RoccaLe manovre di Palazzo di Hillary per battere Obama e l'aritmetica

New York. La riscossa di Hillary Clinton alle primarie di martedì, per quanto le abbia fatto guadagnare soltanto nove delegati su Barack Obama, ha riaperto la gara nel Partito democratico. E’ probabile che la corsa finisca il 7 giugno, alle primarie in Portorico, ma c’è anche la possibilità che si arrivi alla convention di fine agosto, a Denver, senza sapere chi sarà il candidato democratico che il 4 novembre sfiderà il repubblicano John McCain per la presidenza degli Stati Uniti. Ciò che è certo è che a decidere saranno i cosiddetti superdelegati, i vertici e gli apparati di partito che fino al momento della convention potranno cambiare idea e candidato.
Fin dall’inizio gli strateghi delle due campagne dicevano che sarebbe stata una lotta all’ultimo delegato, e così sarà. I delegati normali, non i super, sono assegnati ai candidati in modo proporzionale e in base ai voti ottenuti nelle singole circoscrizioni congressuali degli stati dove si sono tenute le primarie. Il sistema è complicatissimo ed è stato elaborato nel 1968 dal senatore George McGovern per garantire alle minoranze una maggiore e più ampia rappresentanza alla convention, ma anche per sottrarre potere ai vertici del partito.
I repubblicani, invece, hanno un sistema molto più semplice, quasi tutto centrato sul “winner takes all” in vigore per le elezioni presidenziali: il candidato che vince in uno stato ottiene tutti (o quasi) i delegati in palio.
(segue dalla prima pagina) Se i democratici avessero votato con il sistema dei repubblicani, oggi Hillary sarebbe in testa, perché ha vinto in quasi tutti gli stati più grandi. Obama invece è avanti perché ha perso di poco negli stati grandi, ma ha vinto di molto in quelli piccoli. Ora ha un vantaggio di 140 delegati che si riducono a 101 considerando anche i superdelegati che si sono già espressi. Gliene mancano 461 per raggiungere quota 2.025 e ottenere la nomination. A Hillary ne mancano 562. Ora il punto è che in ballo ci sono ancora dodici stati e 611 delegati da assegnare. E’ impossibile che Hillary riesca a colmare lo svantaggio, ma Obama non è in grado di raggiungere il quorum di 2.025. A decidere saranno i 796 superdelegati – gli eletti e gli ex leader del Congresso, gli ex presidenti e vicepresidenti, gli ex candidati alla Casa Bianca, i vertici nazionali e locali del partito – anche se in realtà sono soltanto 347 quelli che non si sono espressi. Chi riuscirà a convincerli avrà vinto. Hillary schiera Bill Clinton a guidare le operazioni, Obama l’ex speaker della Camera Dick Gephardt.
Obama dice che i superdelegati dovranno rispettare l’esito del voto popolare, Hillary sostiene che sono liberi di scegliere il migliore. Hillary dovrà ridurre il vantaggio di Obama, vincendo nei prossimi stati e soprattutto in Pennsylvania, perché soltanto nel caso di una quasi parità potrà resistere alle pressioni di ritirarsi e sperare che i superdelegati preferiscano lei a chi è in testa. In realtà ha in mano un’altra carta, quella della Florida e del Michigan. Questi due stati sono stati puniti dal Democratic National Committee di Howard Dean per aver deciso contrariamente alle indicazioni di Washington di anticipare le primarie a gennaio. Il partito così aveva vietato ai candidati di fare campagna elettorale e deciso di non assegnare ai due stati nessun posto alla convention di Denver. Senonché in Michigan e in Florida si è votato lo stesso e ha vinto Hillary (ma in Michigan Obama non era sulla scheda). I governatori dei due stati hanno invitato Dean a non escludere dal processo di selezione del candidato gli oltre cinque milioni di voti già espressi. Un’ipotesi su cui si sta discutendo è quella di rivotare. (chr.ro)

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