Camillo di Christian RoccaLiberal, infelici e soprattutto tirchi

I cuori teneri hanno le braccia corte. A parole sono compassionevoli, solidali, caritatevoli, nei gesti non gliene può fregare di meno. “They don’t care”, direbbe Walter Veltroni dei suoi potenziali elettori americani. Un accuratissimo studio del professore indipendente Arthur Brooks, citato venerdì da George Will sul Washington Post, svela che la gente di sinistra aiuta il prossimo molto meno di chi si dichiara conservatore. Il professor Brooks, cattedra a Syracuse e una fama di mago dei dati, ha scoperto che malgrado le famiglie liberal guadagnino in media il sei per cento in più delle famiglie conservatrici, in realtà donano il trenta per cento in meno in beneficenza: 1.227 dollari l’anno contro i 1.600 di chi si autodefinisce di destra. Sul tema, il professore ha scritto il libro “Who really cares: the surprising truth about compassionate conservatism” e ha scoperto che i conservatori donano non soltanto più soldi, ma anche più sangue e più tempo alla comunità.
Brooks ha proiettato i dati sulle ultime elezioni presidenziali del 2004 e, di nuovo, è venuto fuori un quadro diverso da quello che lascia intendere la retorica solidale della sinistra e l’individualismo della destra. I residenti negli stati che nel 2004 hanno votato per l’avversario di George W. Bush, cioè per John Kerry, hanno donato una quota più piccola dei propri guadagni rispetto a quella versata dai residenti degli stati che hanno garantito la riconferma presidenziale a Bush. Non solo: Bush ha vinto in ventiquattro dei venticinque stati dove la beneficenza è superiore alla media nazionale. Ancora: nei dieci stati più conservatori, dove Bush ha vinto con più del sessanta per cento dei voti, la percentuale media dei guadagni personali donati in beneficenza è del 3,5 per cento, mentre i residenti degli stati più di sinistra, dove Bush non ha raggiunto il quaranta per cento, hanno versato ai più bisognosi soltanto l’1,9 per cento dei propri guadagni.
L’analisi di Brooks disintegra uno dei tanti luoghi comuni sul menefreghismo dei conservatori e svela come la gente che rifiuta l’idea che lo stato abbia il dovere di ridurre le ineguaglianze della società dona in media quattro volte di più di chi pensa che invece debba combattere la povertà. Il paladino della terra e dei derelitti, Al Gore, alle elezioni del 2000 contro Bush fu messo sotto torchio dai giornalisti quando le sue dichiarazioni dei redditi registrarono una beneficenza pari allo 0,2 per cento del suo reddito familiare, una percentuale pari a un settimo della media nazionale.
La spiegazione di questo fenomeno è altrettanto interessante. Brooks è uno scienziato e non cade nella banalità opposta a quella di chi continua a sostenere la superiorità morale della sinistra, cioè non dice che i conservatori sono più caritatevoli per motivi antropologici. Trova, piuttosto, i motivi di questa maggiore predisposizione al comportamento compassionevole nel rapporto con la religione e nell’attitudine rispetto al ruolo dello stato. I “givers”, cioè chi fa beneficenza è generalmente un cittadino americano che crede in Dio e frequenta le chiese. I maggiori donatori sono anche coloro che ideologicamente non credono nell’intervento pubblico dello stato, i minori givers sono quei liberal che considerano la beneficenza un fenomeno retrogrado, un palliativo che non risolve i problemi di uno stato sociale inadeguato. I liberal sostengono che la vera beneficenza sia quella pubblica, fatta attraverso programmi sociali, pagati con tasse più alte, elaborati per aiutare le fasce più deboli della popolazione. I liberal di sinistra preferiscono donare con i soldi della comunità, piuttosto che con i propri.
Ora Brooks ha scritto un altro libro complementare a questo sulla beneficenza, citato dall’Economist. Si intitola “Gross National Happiness”, felicità interna lorda. Brooks sostiene che quelli di destra siano più felici dei liberal: alle elezioni del 2004 chi si è dichiarato “conservatore” e “molto conservatore” ha risposto di essere “molto felice” in percentuale doppia rispetto a chi si è autodefnito “liberal” e “molto liberal”. Di nuovo, il motivo della felicità, così come quello della maggiore predisposizione alla beneficenza, non è la ricchezza. I liberal in media sono più ricchi dei conservatori.
Secondo Brooks, i fattori di maggiore felicità sono tre: religione, matrimonio e figli, tutti e tre abbastanza correlati. Ma alla base della felicità, dice Brooks, c’è anche l’idea tutta americana che il successo si raggiunga lavorando duro e seguendo le regole. Questo approccio alla vita, conclude Brooks, rende i conservatori più ottimisti dei liberal, più convinti di poter controllare le proprie vite e, di conseguenza, più felici.
    Christian Rocca

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