New York. Cinque anni dopo l’invasione irachena decisa da George W. Bush, condivisa dall’ottanta per cento degli americani, sostenuta da una coalizione internazionale di una trentina di paesi e autorizzata da una larghissima maggioranza del Congresso di Washington – compresi Hillary Clinton, John Edwards, John Kerry, Ted Kennedy e tutti i vertici del Partito democratico – la questione della guerra a Saddam Hussein è tornata al centro del dibattito politico americano. Ieri, al Pentagono, Bush ha orgogliosamente rivendicato la correttezza della sua decisione (“senza Saddam il mondo è più sicuro”) e ha sottolineato il successo della nuova strategia del generale David Petraeus in corso da un anno. Il suo vicepresidente Dick Cheney, di ritorno da Baghdad, a una domanda della Abc sul fatto che due terzi degli americani pensano che questa guerra non valga la pena di essere combattuta ha risposto: “E allora? Non si può essere in balia delle fluttuazioni dell’opinione pubblica”.
L’aspetto più importante, ovviamente è come questo quinto anniversario dell’invasione dell’Iraq sia entrato nella campagna elettorale, anche per capire come sarà affrontato dal prossimo presidente degli Stati Uniti. John McCain è appena tornato da Baghdad e si candida a essere il più fiero continuatore della nuova strategia bushiana, forte del fatto di essere stato il primo a proporla e in opposizione a Donald Rumsfeld. Un paio di giorni fa se ne è occupata Hillary Clinton con un importante discorso, “a major speech”, necessario a chiarire l’evoluzione della sua posizione da senatrice che per tre o quattro anni è stata favorevole all’intervento armato, poi è diventata scettica e contraria, infine si è opposta al “surge” di Petraeus, ma che continua a ricevere consigli strategici da uno degli ideologi dell’aumento delle truppe in Iraq, l’ex generale Jack Keane, e da uno dei più rumorosi sostenitori del funzionamento della nuova strategia, l’analista della Brookings Institution Michael O’Hanlon. La posizione di Hillary, oggi, è quella di chi promette che inizierà fin dal primo giorno di sua presidenza, il 20 gennaio 2009, un ritiro ordinato e sicuro delle truppe americane. Nel piano di Hillary in Iraq resteranno parecchi soldati perlomeno fino al 2013, per condurre operazioni antiterrorismo. Il suo portavoce Howard Wolfson, pressato dai giornalisti, ha detto che il piano di ritiro andrà avanti a prescindere dai consigli dei generali sul campo. La dichiarazione di Wolfson è importante perché, a fine aprile, il generale Petraeus andrà al Congresso a chiedere di aspettare l’autunno prima di ridurre le truppe, per non compromettere i risultati di questi mesi. Obama non è d’accordo. Il senatore dell’Illinois ha legato la questione irachena al tema della sicurezza nazionale e oggi ci tornerà con un secondo discorso per valutare il peso che l’intervento in medio oriente sta avendo sull’economia americana. Obama ha paragonato la posizione di Hillary a quella di McCain e Bush. Obama ha riconosciuto che il surge chiesto da McCain, deciso da Bush e condotto da Petraeus ha fatto diminuire la violenza in Iraq, ma non al punto da fargli cambiare idea. Obama ha promesso di ritirare in modo prudente le truppe dall’Iraq, lasciando a Baghdad un piccolo nucleo di soldati antiterrorismo. E ha spiegato che le sposterà in Afghanistan, chiedendo agli alleati Nato, quindi anche all’Italia, di inviare a loro volta più truppe. La sua posizione irachena, in realtà, non è diversa da quella di Hillary, ma Obama ha detto chiaramente di essere più affidabile della sua collega e di avere migliori capacità di giudizio di Hillary, McCain e Bush perché fin dall’inizio si è opposto alla guerra.
Hillary e suo marito Bill contestano questo ritratto. E’ vero, dicono, che nel 2002 Obama ha pronunciato un discorso contrario alla guerra, ma è altrettanto vero che nel 2004, nel 2005 e nel 2006, quando doveva costruirsi una credibilità, ha sempre votato con Hillary per finanziare l’intervento armato. Inoltre, in quel discorso del 2002, Obama era convinto che Saddam avesse armi di sterminio, si trovasse a un passo dal nucleare e fosse una minaccia per l’America. Malgrado ciò era contrario. Non una posizione facile per un aspirante comandante in capo. (chr.ro)
20 Marzo 2008