New York. “Fairway Cafe” è il ristorante del più radical chic dei supermercati di Manhattan, con vista sul leggendario Beacon Theater, dove Martin Scorsese ha da poco girato il film sugli Stones. Siamo su Broadway tra la settantaquattresima e la settantacinquesima strada. A far la spesa ci sono molte giacche di velluto indossate con la notoria supponenza di chi vive nell’Upper West Side. Il pensatore newyorchese Franco Zerlenga, ex professore di Storia dell’islam alla New York University e simpatico guru di riferimento di questo giornale, sta per andare a visitare una giungla sudamericana: “Le giungle sono la mia passione, una per una le sto visitando tutte”, dice mentre ordina un club sandwich al tacchino e poi due cappuccini decaf e infine una torta di limone sormontata da una morbida meringa.
“Per capire lo spirito del tempo, dove sta andando l’America, che cosa sta succedendo eccetera – esordisce Zerlenga – bisogna guardare gli Oscar. That’s it”. I membri degli Academy Awards, spiega, sono “inconsciamente la coscienza del momento storico che l’America sta vivendo”. Nel 1943, ricorda il pensatore newyorchese, diedero l’Oscar a “Casablanca”: “Il 1943 era un anno in cui si pensava che la guerra stesse andando male, ma il premio al film che raccontava la storia dell’americano e del francese che prevalgono sul generale tedesco, morto ammazzato, segnalava il vero sentimento condiviso dell’America di quel tempo: gli americani volevano sconfiggere i tedeschi, malgrado le difficoltà. E la comunità artistica e intellettuale di Hollywood se ne è accorta, premiando il film che rappresentava al meglio questa volontà”. Quest’anno, per esempio, non sono stati né premiati né nominati i tanti film pacifisti usciti nelle sale, probabilmente uno dei segnali più convincenti del successo della strategia di inviare più truppe in Iraq (e ieri Angelina Jolie, sul Washington Post, ha spiegato che in Iraq bisogna restarci).
Ha vinto, invece, “Non è un paese per vecchi”, insieme con “Il petroliere” giudicato un film violento e brutale. “Questa è una lettura superficiale. Non sono film violenti, sono film sul trauma del terrore causato dall’11 settembre. Prima degli attacchi islamisti, in America il terrore non esisteva. Ora i fratelli Coen hanno raccontato lucidamente la storia di un pazzo terrorista che uccide senza dare alcuna importanza alla vita, non badando agli esseri umani. Il protagonista è il prototipo di terrorista che uccide senza volersi prendere alcuna responsabilità, lanciando la monetina convinto che non sia lui a decidere se togliere o risparmiare la vita, esattamente come gli islamisti arabi. E, infatti, ha vinto l’Oscar”.
Poi c’è “Il petroliere”. Secondo Zerlenga “non è un film sulla nascita del capitalismo americano e sul pericoloso diffondersi delle chiese evangeliche nel sud del paese, ma piuttosto un film sull’Arabia Saudita e le sue madrasse islamiste. I petrolieri non siamo più noi, i petrolieri sono i sauditi”.
Il premio per il miglior film straniero è stato vinto da “I falsari”, ambientato in Austria ai tempi del nazismo, “per gli americani l’Olocausto è ancora una cosa seria”. Poi c’è il caso di “Juno”, il film felicemente pro life su una ragazzina che decide di non interrompere la gravidanza. “Diablo Cody ha vinto per la migliore sceneggiatura originale, in realtà di originale non c’è niente – spiega Zerlenga – è una sottile propaganda antiabortista, però l’Oscar dimostra che anche nel mondo più liberal d’America, come Hollywood, non c’è più ostilità nei confronti di questi temi”. Continua Zerlenga: “E poi soltanto qui può succedere che un’ex spogliarellista vinca l’Oscar. In America tutto è possibile, anche che un topolino diventi un grande cuoco, come racconta un altro film premiato, ‘Ratatouille’”. In Europa, conclude il prof, “non si vuole capire che in questo paese non c’è un pensiero unico. L’America è dinamica, aperta al resto del mondo, anche e soprattutto di questi tempi. E infatti sono stati premiati attori spagnoli, attrici francesi, scenografi italiani. That’s it”. (chr.ro)
1 Marzo 2008