New York. “Non appartengo a nessun partito organizzato, sono un democratico”, è una citazione anni Trenta dell’attore, comico ed editorialista Will Rogers che rappresenta come non mai il caos dentro al Partito democratico americano, incapace di scegliere il proprio candidato alla Casa Bianca a causa di astruse regole elettorali e di mille dubbi sulla personalità dei concorrenti. “Ce ne potrà essere soltanto uno”, titola oggi la copertina di Time. Sembrerebbe una banalità, ma in realtà la sfida infinita tra Hillary Clinton e Barack Obama rischia alla fine di lasciare in campo un solo candidato ma stanco, ammaccato e destinato alla sconfitta con John McCain, convintosi ogni giorno di più di essere “l’uomo più fortunato di Washington”.
Il New York Times, già funambolico di suo nel sostenere ufficialmente Hillary e poi nel rinnegare ogni giorno la sua scelta, ha scritto nel modo più politicamente corretto possibile che, forse, analizzando la composizione del voto per la Clinton – o, vista dall’altra parte, lo scetticismo su Obama – c’è da chiedersi, anzi da temere, se la questione della razza stia giocando un ruolo decisivo nella volontà degli elettori democratici di non chiudere la partita a favore del candidato in testa, cioè di Obama.
“Sono certo di sì”, ha detto il consigliere di Obama, David Axelrod al Times, ma a Radio Npr ha aggiunto che “i democratici perdono spesso il voto della working class bianca”. Un giovane senatore nero che risponde allo strano nome di Barack Hussein Obama e che ogni tanto dà l’impressione di essere un elitario certamente non aiuta il partito a conquistare quei voti che a novembre saranno fondamentali per vincere negli stati in bilico tra i due partiti. Il problema, però, è che l’avversaria di Obama è una donna e non una donna qualsiasi, ma un’ex first lady che, secondo i sondaggi degli ultimi quindici anni, è una delle persone più odiate del paese.
I democratici si sono complicati le cose da soli. Un anno e mezzo fa la corsa è cominciata nel migliore modo immaginabile per le loro speranze di tornare alla Casa Bianca. I due mandati di George W. Bush si sentivano tutti, l’economia cominciava a dare segnali di recessione, il costo della benzina non accennava a diminuire, il dollaro era in picchiata, la crisi dei mutui era pronta a scoppiare, la guerra in Iraq non lasciava intravedere via d’uscita e i repubblicani si dileguavano.
Ora le condizioni sono più o meno le stesse, con l’eccezione di un solido miglioramento della situazione in Iraq e un candidato repubblicano che, per quanto non amato dai conservatori, è un eroe, un promotore della nuova strategia irachena e l’unico in grado di non perdere voti al centro.
I candidati sbagliati
Le condizioni politiche sono quelle di una passeggiata dei democratici su quel che resta della Right Nation. Una situazione così favorevole di recente c’è stata solo nel 2000, quando Al Gore, vice di Bill Clinton, non è incredibilmente riuscito a capitalizzare otto anni di boom economico, la fine della storia e un avversario come il figlio dell’ex presidente Bush a cui nessuno avrebbe dato due lire. Il problema dei democratici è quello di sbagliare troppo spesso candidato. Il loro sistema di selezione premia l’ala più liberal e di sinistra e, alla fine, prevalgono sempre gli esponenti un po’ troppo elitari dell’intellighenzia: dall’elegante Adlai Stevenson all’idolo delle folle giovanili George McGovern che finì tranciato in due da Richard Nixon, da Walter Mondale a Michael Dukakis fino a John Kerry. Obama è un candidato dello stesso tipo: “E’ il nuovo McGovern”, ha scritto il liberal New Republic. Gli unici due scelti fuori da questo schema, perché outsider, sudisti e moderati, cioè Jimmy Carter e Bill Clinton, sono stati anche gli unici due che in quarant’anni sono entrati alla Casa Bianca, anche se aiutati dal Watergate (Carter) e dal 19 per cento del terzo candidato Ross Perot (Clinton). Obama ha provato ad ampliare la sua base di giovani entusiasti, di afroamericani, di intellettuali e star di Hollywood. Un milione e mezzo di persone ha contribuito alla sua campagna con piccole cifre, versando sui suoi conti oltre 240 milioni di dollari e annientando il vantaggio di Hillary, costretta a contare su un numero inferiore di donatori e sul tetto massimo di 2.300 dollari annui. Sembrava che Obama ce l’avesse fatta, anche grazie al sostegno di stampa e tv, ma la macchina da guerra clintoniana gli ha scaraventato addosso di tutto (“kitchen sink strategy”) ed è riuscita a macchiarlo, a indebolirlo, a fermarlo. McCain se la ride. E i sondaggi, contro Obama, lo danno saldamente in testa nei decisivi Pennsylvania, Ohio e Florida.