Camillo di Christian RoccaTerminator

New York. Obama non riesce a scrollarsi di dosso Hillary Clinton, non riesce a chiudere la partita, non riesce a vincere in nessuno dei grandi stati americani, tranne il suo. C’è da capirlo, ha scritto il Wall Street Journal, se la notte si sveglia con l’incubo di trovarsi in un film tipo “Terminator” di fronte a una macchina dalle sembianze umane che non muore mai. Malgrado abbia speso meno della metà di Obama, Hillary Clinton ha vinto con quasi dieci punti di scarto, nove virgola quattro per la precisione, le primarie della Pennsylvania, l’ultimo dei grandi stati americani impegnati in questa lunga corsa elettorale per scegliere il candidato del Partito democratico alla Casa Bianca. E dopo la vittoria, in poche ore, ha raccolto due milioni e mezzo di dollari che sono serviti a coprire i debiti. Da qui alla fine, il 3 giugno, restano altre nove primarie, a cominciare dall’isola di Guam nel Pacifico il 3 maggio e, due giorni dopo, Carolina del nord e Indiana.
Obama ha entusiasmo, freschezza e una gran quantità di soldi, ma non riesce a convincere gli elettori del suo stesso partito, non ce la fa a dimostrare di essere il candidato migliore contro il repubblicano John McCain. Anziani, cattolici, donne, maschi bianchi, poveri, middle-class, latinos, fedeli, diplomati, frequentatori di bowling, cacciatori, portatori d’armi – i cosiddetti “Reagan’s democrat” che sono passati ai repubblicani per reazione alla radicalizzazione della sinistra e che, dopo otto anni di Bush, sembrano pronti a tornare a casa – continuano a preferirgli Hillary Clinton e ad avanzare dubbi sull’efficacia della sua candidatura alle elezioni generali. Obama tiene grazie agli afroamericani, agli universitari, ai super laureati, ai ricchissimi e alla stampa, confermando l’immagine di candidato d’élite, capace di grande oratoria, dotato di una formidabile organizzazione politica, ma sconnesso col paese reale.
(segue dalla prima pagina) Obama è sempre a un passo dalla vittoria finale, perché grazie alle complicate regole del Partito democratico – definite “un disastro” da Karl Rove, il guru politico di George W. Bush – Hillary non è in grado di colmare la differenza di centocinquanta delegati che la separa dal senatore.
Obama, però, non ce la farà a raggiungere il numero necessario di delegati (2025) a vincere la partita e, quindi, per sapere chi sarà il nominato si dovrà aspettare la scelta di quegli oltre trecento superdelegati, i vertici e gli eletti del partito, ancora indecisi e sempre più terrorizzati dall’idea di scegliere il candidato sbagliato per sé e per il paese. Senza dimenticare che gli oltre cinquecento che si sono già espressi potranno cambiare idea fino alla convention di agosto a Denver. La speranza del presidente del partito Howard Dean e di altri leader, ma anche del New York Times che ieri si è praticamente rimangiato l’endorsement, è che Hillary si ritiri ma, come ha scritto Maureen Dowd sempre sul Times, “sarebbe come se la Micronesia dicesse alla Russia di denuclearizzarsi”.
Obama ha conquistato più delegati, ha vinto in più stati, ha raccolto più soldi e ha un piccolo vantaggio anche in termini di voti popolari. Quest’ultimo dato è controverso, perché non tiene conto del risultato della Florida e del Michigan, dove la Clinton ha vinto in due primarie non riconosciute perché convocate in violazione del calendario deciso da Washington. Hillary non rinuncia a quei voti e a quei delegati, specie se alla fine la differenza tra lei e Obama sarà minima, anche perché quegli elettori si sono comunque espressi ed escluderli da un processo così serrato sarebbe antidemocratico. L’aritmetica condanna Hillary, così come la stanchezza nei confronti del clintonismo, ma restano forti gli argomenti per convincere il partito che è lei la più adatta a battere McCain. Uno su tutti: se la sfida fosse Obama-McCain, secondo gli exit poll, il 27 per cento degli elettori di Hillary non voterebbe Obama.
    Christian Rocca