Milano. Hillary Clinton ha perso il suo Karl Rove, il suo stratega elettorale Mark Penn. John McCain, invece, sembra stia seguendo i consigli del vero Rove, l’architetto dei successi di George W. Bush. Il toto consiglieri è una delle chiavi di lettura più interessanti per intuire le mosse dei candidati americani alla Casa Bianca. Hillary è impegnata nella quasi impossibile impresa di battere Barack Obama alle primarie democratiche e John McCain nell’altrettanto difficile tentativo di trovare una finestra di visibilità in mezzo al titanico scontro tra l’ex first lady e il senatore nero. L’unico che non ha problemi è Obama, grazie alla geniale campagna centrata sul cambiamento e la speranza elaborata con l’aiuto di David Axelrod.
Hillary s’è affidata a Mark Penn, un fedelissimo dei Clinton fin dai tempi della Casa Bianca. Ex vice di Dick Morris, oggi diventato uno dei principali avversari dei Clinton, Penn è proprietario di varie aziende di consulenza che lavorano per imprese e leader di mezzo mondo. Tra i suoi clienti c’è stato Silvio Berlusconi: era Penn il famigerato “sondaggista americano” di cui parlava il leader di Forza Italia e che, unico, aveva azzeccato il risultato di semi parità di due anni fa. Tra i dipendenti di Penn, attraverso una ragnatela di società, ci sono anche vari consulenti repubblicani, compreso uno dei principali advisor di McCain e la Blackwater, cioè l’azienda che fornisce i contractor, i soldati privati, in Iraq. Penn ha rifiutato di lasciare la guida del suo impero, spiegando che personalmente avrebbe seguito solo Hillary e la Microsoft. Con Hillary, Penn ha fatturato 13 milioni di dollari, per sondaggi e spot tv.
Penn ora si è dimesso da capo stratega della campagna di Hillary, perché venerdì il Wall Street Journal ha svelato che si è incontrato a Washington con diplomatici colombiani per aiutarli a promuovere un trattato di libero scambio con gli Stati Uniti. Hillary è contraria al trattato, in linea con la nuova tendenza protezionista (e anticlintoniana) del Partito democratico. Questo conflitto di interessi è stato fin dall’inizio un peso per Penn e di conseguenza per Hillary. Le critiche dell’ala più di sinistra del partito non sono mai mancate, anche se il vero obiettivo delle accuse era quello di indebolire il principale teorico della campagna centrista di Hillary, a cominciare dall’Iraq. I Clinton hanno sempre difeso Penn, anche quando all’interno del loro quartier generale la maggioranza dello staff non ne ha condiviso la strategia e i modi. Penn ha puntato sull’inevitabilità della candidatura di Hillary, presentandola come se la senatrice fosse il presidente uscente, invece che l’aspirante leader del partito d’opposizione. La strategia ha funzionato a metà. Hillary è riuscita ad accreditarsi come il candidato dell’establishment, come una senatrice preparata e un comandante in capo tutto sommato affidabile. Un risultato non da poco, visto che Hillary è uno dei personaggi pubblici più odiati d’America e con metà degli elettori pregiudizialmente contrari a votarla chiunque sia il suo avversario. La strategia di Penn è stata rovinata dal messaggio di speranza e cambiamento di Obama, diventato il tema centrale della campagna elettorale che ha trasformato Hillary nel candidato del passato. Nelle ultime settimane, Penn aveva provato a definire Obama come un candidato inaffidabile sulle questioni di sicurezza nazionale e troppo debole contro l’eroe John McCain e, per la prima volta, i giornali e le tv hanno cominciato ad esprimere qualche dubbio sul senatore dell’Illinois. Con l’uscita di scena di Penn, il quale però continuerà a fare i sondaggi, c’è chi dice che Hillary avrà un approccio meno aggressivo nei confronti di Obama, ma è probabile che non cambierà nulla, anche perché ormai è troppo tardi. Il 22 si vota in Pennsylvania, dove Hillary è nettamente in vantaggio, ma già qualche giorno dopo, in Carolina del nord, è prevista una solida vittoria di Obama.
Nessuno dei due, né Obama né Hillary, potrà raggiungere il quorum per ottenere la candidatura senza i superdelegati, cioè senza il voto dei vertici del partito. Obama si sente in una botte di ferro perché, matematicamente, Hillary non potrà raggiungerlo e, quindi, è certo che il partito non potrà che assecondare l’esito delle urne. La strategia di Hillary, studiata a tavolino da Penn, è quella di ottenere, se non più delegati, almeno più voti popolari, in modo da convincere giornalisti, opinionisti e leader del partito che la candidata più forte contro McCain è lei, non l’inesperto Obama.
McCain, intanto, sta girando il paese puntando sulla sua biografia di eroe che ha dedicato l’intera vita al servizio dell’America, più che su proposte concrete per governare. La strategia gli è stata suggerita pubblicamente, ma anche in un lungo incontro privato, da Karl Rove – il più abile e più temuto dei consiglieri politici di Washington.
Christian Rocca
8 Aprile 2008