Camillo di Christian Rocca28 agosto

E’ il giorno finale della convention del Partito democratico, quello che si chiuderà con il discorso di accettazione della candidatura alla Casa Bianca. Ma è anche un anniversario importante per la storia americana. In quel giorno del 1963, quando Obama aveva soltanto due anni, Martin Luther King ha pronunciato il suo discorso “I have a dream”, il grido di speranza di un futuro in cui bianchi e neri avrebbero vissuto in armonia e da uguali.

New York. Il romanzo delle elezioni primarie democratiche è giunto ai capitoli finali, dopo il grande successo di Barack Obama in Nord Carolina (+14) e la vittoria d’un soffio di Hillary Clinton in Indiana (+1,8). Succederanno ancora molte cose da qui alla convention di Denver – Hillary non mollerà, si rifarà martedì in West Virginia, proverà a recuperare la Florida e il Michigan, continuerà a spiegare che contro McCain lei ha più chance e via dicendo – ma al di là dei tecnicismi, della conta dei delegati e delle manovre politiche che terranno tutti col fiato sospeso il finale della storia è immaginabile.
Segnatevi la data: 28 agosto. E’ il giorno finale della convention del Partito democratico, quello che si chiuderà con il discorso di accettazione della candidatura alla Casa Bianca. Il 28 agosto è un anniversario importante per la storia americana. In quel giorno del 1963, quando Obama aveva soltanto due anni, Martin Luther King ha pronunciato il suo discorso “I have a dream”, il grido di speranza di un futuro in cui bianchi e neri avrebbero vissuto in armonia e da uguali.
Sembra l’happy ending di un film hollywoodiano, ma se quarantacinque anni dopo a salire sul podio di Denver sarà Obama, con l’altrettanto iconica moglie e le due bambine, quel sogno si sarà realizzato. L’immagine di Obama che raccoglie il testimone di MLK e fa compiere al paese una svolta epocale è esattamente il motivo del suo successo. I liberal si sono innamorati di questo.
Il fenomeno Obama può essere spiegato anche in mille altri modi, a cominciare dalla formidabile macchina organizzativa che il senatore è riuscito ad assemblare, tecnicamente imbattibile nei caucus che, da soli, gli stanno consegnando la nomination, oppure con la straordinaria capacità di raccogliere fondi on line (245 milioni di dollari e un milione e mezzo di finanziatori) o con il coinvolgimento dei giovani. Ma nessuno di questi elementi avrebbe fatto il solletico alla “Clinton machine” se non fosse stato sostenuto dalla retorica della speranza, dalla religione del cambiamento e dall’ottimismo che sprizza da ogni parola, gesto, immagine di Obama.
Il senatore è il catalizzatore di una frenesia nuovista inarrestabile, quasi messianica, oltre che gioiosa, radicale e sexy. La sinistra americana si è infatuata del candidato super cool, bello, glamorous, cinematografico. Perfetto proprio perché di colore, come aveva detto la clintoniana Geraldine Ferraro, poi costretta per questo commento giudicato “razzista” a lasciare la campagna.
Il fascino di Obama è irresistibile anche per il tifo aperto della stampa, ma nonostante ciò la patina di grazia che lo circonda, l’eleganza del suo portamento e le parole che scivolano lievi come sul velluto sono reali e toccano sentimenti profondi, tipicamente americani. E più lui resta vago e non fornisce dettagli più la formula fa sognare.

L’atto di fede c’è, ma poi ci sarà McCain
Hillary sta provando ad aprire gli occhi al suo partito, lo invita a non farsi ammaliare dai discorsi, sottolinea che la working class bianca, cioè i leggendari Reagan Democrats che sono i più sospettabili di defezione in direzione McCain, continua a non votarlo, nemmeno in Nord Carolina dove ha stravinto (grazie ai neri). Il suo consigliere Paul Begala ha detto che dietro Obama c’è solo “una coalizione di teste d’uovo e afroamericani”, incapace di comprendere che l’associazione col reverendo Jeremiah Wright, l’amicizia con un terrorista sessantottino, le gaffe radicali della moglie, il rifiuto di indossare la spilletta con la bandiera e una certa ingenuità in politica estera avranno un peso insopportabile contro l’eroe John McCain. Altri, come il mastino Harold Ickes, ripetono che di Hillary si sa già tutto e di Obama ancora troppo poco, quindi di fare attenzione perché, prima o poi, potrebbe arrivare una qualche sorpresa negativa.
Eppure la metà liberal del paese non sembra curarsene, nemmeno del fatto che il paese reale, nei grandi stati e nell’America rurale, resta fedele a Hillary. Crede che le elezioni di novembre saranno comunque una passeggiata, dopo la vittoria di midterm di due anni fa, l’impopolarità di Bush, la situazione economica, la guerra in Iraq e la scricchiolante coalizione che sostiene McCain.
L’atto di fede c’è, le elezioni serviranno a capire se la luce che illumina Obama è il segnale di una nuova “New frontier” kennedyana o di un suicidio politico come quello del 1972, quando i liberal si affidarono con altrettanta passione ed entusiasmo a George McGovern, per poi essere travolti da Richard Nixon. Ieri, intanto, McGovern ha lasciato Hillary per schierarsi con Obama.