Camillo di Christian RoccaL'uomo che fa eleggere i neri con i voti dei liberal bianchi

New York. L’uomo che fa eleggere i neri si chiama David Axelrod. E’ lo stratega elettorale di Barack Obama, il cervello del senatore di Chicago, il nuovo Karl Rove della politica americana. Cinquantatré anni, nato nel Lower East Side di New York, università a Chicago, “il posto più interessante del mondo per chi fa politica”, ex reporter, caporedattore ed editorialista di punta del Chicago Tribune, Axelrod a un certo punto s’è stufato di scrivere di politica e s’è messo a farla, non direttamente, ma da consulente. Amico da quindici anni di Obama, suo partner nelle partite di basket, anche se pare non gli passi mai la palla, Axelrod ha baffi e riporto, indossa giacche lise, ha l’aspetto di un professore post sessantottino e uno sguardo a volte troppo spento altre troppo acceso. Come Rove con George W. Bush, Axelrod è l’architetto del capolavoro obamiano e, oggi, il più ammirato e invidiato stratega elettorale del paese.
Specializzato in far eleggere i candidati afroamericani con i voti dei liberal bianchi, Axelrod ha guidato la campagna dell’attuale governatore del Massachusetts Deval Patrick, considerato il prototipo politico di Obama, e ha fatto eleggere i sindaci di Chicago, Detroit, Filadelfia, Houston, Cleveland, tutti neri, tutti appartenenti allo stesso tipo di candidato afroamericano carismatico, riformatore, volto al cambiamento. Non solo neri, però: Axelrod ha lavorato con Bill Clinton, con il governatore dell’Iowa Tom Vilsack, con il senatore Chris Dodd e, di recente, con Rahm Emanuel, l’influente deputato di Chicago che con lui ha orchestrato la grande vittoria democratica alle elezioni di metà mandato di due anni fa, grazie all’idea di arruolare nei collegi repubblicani candidati moderati e conservatori.
Axelrod è la versione specularmente liberal di Rove, un idealista capace di presentare i suoi candidati come leader caldi e ispirati, ma anche abilissimo nell’assestare devastanti colpi sotto la cintola. Chi crede che a novembre i repubblicani potranno facilmente travolgere il messaggio buonista di Obama non sa che Axelrod s’è fatto le ossa da stratega delle pubbliche relazioni del potente sindaco di Chicago, Richard Daley (che Axelrod difendeva ogni giorno in tv dalle accuse di corruzione), non conosce la brutalità della battaglia politica di Chicago e non ha ancora elaborato l’entità dei danni che il team Obama ha inflitto all’invincibile macchina clintoniana (Hillary, tra l’altro, è stata una straordinaria sostenitrice dell’associazione per la ricerca sull’epilessia infantile fondata dalla moglie di Axelrod e da altre mamme di bimbi epilettici, ma Axelrod non si è commosso).
La parabola politica di Obama, per esempio, è cominciata in modo non proprio idealista. Alla vigilia delle primarie 2004 per il seggio senatoriale dell’Illinois i candidati erano due: il miliardario liberal Blair Hull, favoritissimo dai sondaggi, e il giovane politico locale Barack Obama. Un mese prima delle elezioni, il Chicago Tribune, ex giornale di Axelrod, ha raccontato i dettagli di un rocambolesco divorzio tra Hull e la moglie che a poco a poco si è trasformato in uno scandalo tale da distruggere la candidatura del candidato favorito e regalare la vittoria a Obama. Il Chicago Tribune ha ammesso che, dietro le quinte, il team Obama aveva lavorato parecchio per far emergere lo scandalo, ma sono in molti a credere che la fonte primaria della soffiata sia stata proprio Axelrod. Lui nega, ma a Chicago tutti ricordano che prima di firmare per Obama, Axelrod era stato in trattative con Hull per guidare la sua campagna.
Conquistata la nomination democratica, Obama avrebbe dovuto affrontare un più esperto, e favorito, avversario repubblicano, Jack Ryan. Ma anche lui è stato travolto da uno scandalo di coppia. Alla diffusione dei primi pettegolezzi, gli uomini di Obama hanno cominciato a tempestare i giornalisti di email invitandoli a indagare sui file riservati del divorzio di Ryan, anche se quando poi il giudice ha imposto di renderli pubblici, gli obamiani sono tornati buonisti e hanno chiesto di non utilizzarli a fini politici. In quei file c’era scritto che Ryan portava la moglie in locali per scambisti e che la costringeva a fare sesso con sconosciuti. Ryan s’è ritirato e, all’ultimo minuto è stato sostituito da un ex diplomatico di colore, Alan Keyes, che non aveva mai vissuto in Illinois: Obama ha vinto col 70 per cento dei voti.
I primi passi di Obama e lo stile di Axelrod sono la prova che difficilmente si faranno mettere sotto come è capitato a John Kerry nel 2004. Le ultimissime polemiche con Bush e John McCain sulla politica estera sono l’anteprima della battaglia di novembre e la prova che per i repubblicani non sarà facile caratterizzare Obama come un candidato debole e privo di leadership. Axelrod sa che McCain giocherà la carta dell’inesperienza di Obama nelle questioni di sicurezza nazionale, sicché reagisce all’istante, in modo vigoroso, esagerato e quasi arrogante, a ogni possibile avvio della campagna repubblicana. Giovedì, pochi istanti dopo che Bush aveva pronunciato al Parlamento israeliano una frase, peraltro spesso ricorrente nella sua retorica, a proposito dell’ingenuità di credere che si possa trattare con i fanatici iraniani, gli obamiani si sono scatenati in critiche durissime al presidente e a McCain, perché convinti che in mancanza di una reazione tosta quella frase avrebbe potuto essere interpretata come un segnale di debolezza.
C’è tutto Axelrod, ma anche Karl Rove, in questa strategia che non nasconde i difetti del candidato, ma che anzi li abbraccia e poi li trasforma in risorse decisive a vincere le elezioni. Il metodo Axelrod proietta candidati post ideologici, intellettuali e articolati, ma anche capaci di fare a botte per strada. I suoi clienti sono la personificazione del loro messaggio, ha scritto il New York Times, puntano più sulla biografia che sulle proposte politiche. Sono ottimisti, riformatori e si presentano come crociati dolci del cambiamento, ma non sembrano fanatici, perché il loro messaggio è sempre mitigato da un pragmatismo naturale.

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