New York. Da quando Barack Obama è il vincitore annunciato e inevitabile delle primarie democratiche, gli elettori e i militanti di partito hanno cominciato a votare Hillary Clinton, in Texas, in Ohio, in Pennsylvania, in Indiana, in West Virginia e, martedì, in Kentucky con scarti preoccupanti per Obama in vista delle presidenziali del 4 novembre contro il repubblicano John McCain. In Kentucky, detto il “bluegrass state”, il margine pro Hillary è stato di 35 punti, 65 per cento a 30, poco meno dei 42 punti della West Virginia della settimana scorsa.
Il dato è sempre lo stesso, stato dopo stato: la maggioranza delle donne, degli ispanici, degli ebrei, dei cattolici, della working class, dei ceti medi e di quelli bassi vota Hillary, anche se le televisioni e i giornali dicono che Obama ha già vinto e che Hillary non ha nessuna possibilità, malgrado Obama spenda il doppio dei soldi e Hillary sia piena di debiti. Non solo: la metà degli elettori di Hillary dice negli exit poll che a novembre non voterà Obama e, addirittura, un terzo annuncia che sceglierà McCain. E’ improbabile che accada, specie in queste proporzioni, nel momento in cui comincerà la vera sfida con McCain e il partito ritroverà l’unione, ma martedì l’ex candidata nel 1984 alla vicepresidenza di Walter Mondale, Geraldine Ferraro, ha detto che voterà McCain e non Obama. Ed è curioso che con lei e con Joe Lieberman, il candidato vice di Al Gore nel 2000, saranno due su cinque gli ex candidati democratici alla vicepresidenza che preferiscono McCain al compagno di partito.
Obama continua ad avere l’enorme sostegno degli afroamericani, dove ci sono, dei giovani e della gran parte della gente che vive nelle grandi città metropolitane e universitarie. Sempre martedì, il senatore dell’Illinois ha pareggiato la sconfitta in Kentucky vincendo in modo solido in Oregon, anche se con un margine inferiore, 57 a 42. E ad aprile ha raccolto oltre 31 milioni di dollari.
La situazione, a tre giornate dalla fine, è questa: Obama ha raggiunto la maggioranza dei delegati “pledged”, cioè di quelli eletti nelle primarie e nei caucus, ma non ha ancora raggiunto la quota 2.026 che, per ora, è quella fissata dal partito per conquistare la nomination. Gli mancano 62 delegati. Obama ha detto di essere a un passo dalla nomination e ha festeggiato in Iowa, dove a gennaio è cominciata la sua corsa, con un discorso già rivolto alla sfida contro McCain, ma anche pieno di segnali positivi nei confronti di Hillary, al punto che è sembrato volergli offrire in diretta televisiva la vicepresidenza.
Nel suo discorso di vittoria in Kentucky Hillary ha annunciato di essere in testa nel numero dei voti popolari e di aver vinto negli stati più importanti. Il suo problema è che a causa delle regole del Partito democratico è come se non avesse vinto niente. Ci fossero state le regole usate dai repubblicani o le stesse in vigore a novembre alle presidenziali, cioè il sistema maggioritario “winner takes all”, Hillary avrebbe già in tasca la nomination. Ad aprile ha anche raccolto 22 milioni di dollari, una cifra record, considerato che da settimane tutti ripetono che è finita.
Il punto è che “non è finita finché non è finita”, come diceva il leggendario giocatore e allenatore degli Yankees Yogi Berra. Anche perché, aggiungono i clintoniani, a cantare vittoria troppo presto si rischia di fare la fine di George W. Bush e del suo “missione compiuta” in Iraq.
C’è da votare ancora il primo giugno a Portorico, dove Hillary è in netto vantaggio, e due giorni dopo in Montana e Nord Dakota dove dovrebbe vincere Obama. Stando così le cose, ma anche nel caso in cui uno dei due candidati vincesse in modo ampio tutte e tre le prossime primarie, nessuno dei due raggiungerebbe quota 2.026. Non Obama, tantomeno Hillary. In realtà i clintoniani contestano che la quota sia 2.026, perché esclude i delegati della Florida e del Michigan, stati in cui si è votato in violazione delle regole del partito e che, per questo, sono stati puniti con la non partecipazione alla convention di agosto. Hillary vuole che Florida e Michigan partecipino, perché in quei due stati si è votato lo stesso, e in massa, e lei ha vinto.
Obama dice che le regole non possono essere cambiate, ma Clinton sostiene che in una gara così tirata è antidemocratico cancellare il voto di milioni di persone. La decisione finale sarà presa il 31 maggio, da una commissione del partito. Se l’argomento di Hillary prevalesse, Obama non sarebbe comunque raggiunto, dovrebbe soltanto prendere una quota più ampia di superdelegati.
I superdelegati sono circa 800 tra eletti e vertici del partito. Saranno loro a scegliere il vincitore. In meno di seicento hanno già scelto, metà Obama e metà Hillary, ma potranno cambiare idea. Gli indecisi sono circa 240. Il partito vuole che si schierino dopo il 3 giugno, a urne chiuse. Obama sostiene che dovranno premiare chi si trova in testa alla fine del ciclo di primarie. Hillary spiega che devono scegliere il candidato con più possibilità di vittoria, non quello in vantaggio. Forse non finisce nemmeno il 3 giugno e si continua fino alla convention di Denver.
Christian Rocca
22 Maggio 2008