New York. Il fenomeno Barack Obama, anche dopo la devastante sconfitta di 41 punti di martedì in West Virginia contro una mai doma Hillary Clinton, ha a che fare con la fine del Sessantotto, dice al Foglio l’editorialista del New York Times David Brooks: “Obama – spiega il columnist del quotidiano liberal di Manhattan – è il primo candidato a presentarsi alla Casa Bianca senza retaggi degli anni Sessanta, privo di quella retorica così comune nella sinistra liberal, anzi addirittura rifiuta quel dibattito cominciato nel 1968”. Il suo successo – continua l’autore di uno dei saggi socio-politici più influenti degli ultimi anni, “Bobos in Paradise” – si spiega col fatto che finalmente “gli elettori sono felici di dire ‘goodbye to all that’, addio a tutto ciò, ma anche perché dopo questi decenni di polarizzazione politica, Obama si presenta come una persona estremamente calma, con la capacità di comprendere anche gli altri punti di vista, la sua grande abilità è quella di percepire e creare legami con gli altri”.
Tutto ciò, in particolare la straordinaria solidità del suo movimento e della sua organizzazione diffusa nel paese, secondo Brooks piace “ai molti giovani che hanno perso fiducia nella politica tradizionale”. Detto questo, precisa l’editorialista conservatore che è stato uno dei primi a prendere sul serio la candidatura e il fenomeno Obama, “negli ultimi tre o quattro mesi, il senatore dell’Illinois è diventato un candidato molto più convenzionale, ha cominciato a porsi contemporaneamente come la nuova speranza per la generazione giovane, ma anche come una scelta sicura per i meno giovani”.
Nato a Toronto nello stesso anno di Obama (1961), cresciuto a New York, e laureato all’Università di Chicago, Brooks è di formazione liberal, anche se ha iniziato a lavorare alla National Review e ha fondato, con Bill Kristol, il Weekly Standard. Brooks è diventato conservatore, anzi neoconservatore, alla fine degli anni Ottanta, dopo aver provato a sfidare William F. Buckley e Milton Friedman (Brooks aveva scritto una parodia di Buckley e quando il fondatore della National Review è andato a una conferenza all’Università di Chicago, prima di iniziare ha detto: “Se David Brooks è in sala, si faccia avanti, vorrei assumerlo”. Lo scontro con Milton Friedman è stato un disastro, racconta lo stesso Brooks: “Io spiegavo la mia posizione socialista e lui con due sole frasi devastava la mia intera argomentazione, lasciandomi ogni volta senza parole”).
Brooks è stato uno dei primi intellettuali conservatori a seguire con attenzione, simpatia ed entusiasmo la traiettoria politica di Obama. All’inizio dell’anno ha scritto che in gara c’erano soltanto due grandi uomini, Obama e McCain. Le sue opinioni sul Times sono sempre piene di elogi per la candidatura e il messaggio post razziale e post partigiano di Obama, ma negli ultimi mesi l’atteggiamento è decisamente cambiato, tanto che a un certo punto Brooks ha scritto che “la magia è finita” e che “la febbre è passata”. Non è stato il solo, ma anche in questo caso è stato il primo a intuire che qualcosa stava cambiando nel messaggio obamiano, col rischio di compromettere la straordinarietà della sua parabola politica.
Brooks sostiene che dopo mesi di euforia personale e collettiva per il cambiamento storico che la candidatura ed eventualmente la presidenza di Obama avrebbero rappresentato per l’America e per il mondo si sia a poco a poco diffusa una “sindrome da delusione di Obama” che ha cominciato a favorire Hillary, anche se probabilmente ormai è troppo tardi.
Brooks, personalmente, dice di avere “ancora fede nelle abilità personali di Obama” e spiega questo cambiamento di atteggiamento col fatto che il senatore “è stato impegnato in una campagna politica senza precendenti, nella quale certamente ha dovuto concedere molte più attenzioni ai militanti democratici, a danno di noi che non siamo attivisti democratici”.
Ma non è soltanto questo. Brooks ribadisce anche un problema di sostanza, cioè che “non si può dimenticare che Obama è un politico di sinistra molto convenzionale, un liberal molto ortodosso”. A guardare i suoi voti al Senato, secondo l’indipendente National Journal, è stato il senatore più liberal del paese e anche le sue proposte politiche e programmatiche non si allontanano mai dai principi dell’ortodossia liberale. Brooks però nota anche la sua attività politica al Senato, quella che va oltre i voti espressi. Malgrado la retorica bipartisan mostrata in campagna elettorale, e al contrario del record di John McCain, a Capitolo Hill – dice Brooks – Obama non si è mai impegnato per trovare un terreno comune con i repubblicani, né sui giudici né su altro, e non si è mai nemmeno distinto per proposte di legge o compromessi con l’altra parte, anzi li ha sempre rifiutati.
A gennaio, continua Brooks, Obama aveva promesso novità politiche e di voler unificare il paese, si era presentato insomma come una figura trascendente capace di connettersi con tutta la società americana, ma oggi è sempre meno quel candidato, appare più elitario, più partigiano, più radicale. All’inizio parlava il linguaggio della fede, della religione, sembrava il candidato più adatto a colmare il “religious gap” dei democratici rispetto ai conservatori: “Solo in teoria – riflette Brooks – Obama non è un guerriero culturale, spera che sia la storia a chiudere da sola la guerra culturale degli anni Sessanta, lui è seduttivo, sofisticato e semmai crea un problema ancora più viscerale, perché molti pensano che sotto sotto sia troppo accademico, credono che non capisca come sia fatta la vita reale”.
Questo aspetto, l’accusa di essere un membro dell’élite, secondo Brooks determina sospetti e dubbi molto più grandi dell’aspetto razziale. Il problema di Obama “ha molto più a che fare con l’aver fatto Giurisprudenza ad Harvard che con l’essere nero”. Brooks ricorda, infatti, che quando si è candidato al Congresso in un collegio della South Side di Chicago, circoscrizione a grandissima maggioranza afroamericana, Obama ha avuto lo stesso problema: “E’ stato accusato di essere troppo accademico, senza alcuna connessione con la gente comune e ha perso”.
Brooks parla di “potere della demografia”, perché esistono “molti americani a cui Obama non dice niente”, molta gente che non capisce quale sia tutta questa eccitazione nei suoi confronti: “Gli Stati Uniti non sono divisi soltanto tra sinistra e destra, ma anche tra chi ha un’istruzione superiore e una inferiore. Obama piace ai primi, parla il loro stesso linguaggio, condivide i loro valori, ma non è abile a convincere gli americani meno istruiti. Il voto di ieri in West Virginia in parte ha connotati razziali, ma in realtà è una costante che abbiamo già visto in California, in New Hampshire, in Ohio, in Pennsylvania, in posti dove non c’è contrapposizione razziale”.
Non è detto che a novembre, contro McCain, l’accusa di essere elitario possa funzionare: “Siamo in un anno straordinariamente democratico, mi aspetto che vinca Obama, perché l’onda politica è quella a prescindere dal muro demografico, ma la barriera demografica c’è. Certo l’onda può cambiare, ma la gente è profondamente maldisposta con i repubblicani”.
15 Maggio 2008