New York. “Il ritorno della storia” e “Il mondo post americano” sono i titoli dei saggi di Robert Kagan e Fareed Zakaria, due degli strateghi più quotati d’America, appena pubblicati negli Stati Uniti. Analista neoconservatore il primo, di establishment realista il secondo, Kagan e Zakaria sono tornati ad affrontare il tema del futuro delle relazioni internazionali nel nuovo mondo globalizzato e, come già successo con i loro libri post 11 settembre, le loro idee si sfiorano, si intrecciano e divergono in modo interessante. Nel 2003 Kagan aveva scritto “Paradiso e Potere” (Mondadori) per fotografare le nuove relazioni transnazionali tra America ed Europa, mentre Zakaria aveva pubblicato “Democrazia senza libertà” (Rizzoli) per spiegare che promuovere la democrazia nelle società illiberali è pericoloso.
Cinque anni dopo, Kagan può vantare la vittoria dei filo americani Nicolas Sarkozy e Angela Merkel in Francia e Germania, ma non può nascondere un’ampia e diffusa opposizione mondiale alle regole del gioco dettate dall’America. Zakaria aveva previsto le difficoltà della dottrina pro democratica in Iraq e a Gaza, ma la sua conseguente idea di sostenere il generale Pervez Musharraf per paura degli islamisti non è stata confermata dal voto degli elettori pachistani. Oggi notano come l’impetuosa ascesa di nuove grandi potenze come la Russia, la Cina, l’India, il Brasile, l’Iran abbia cancellato le certezze, nate alla fine della Guerra fredda, di un nuovo e pacifico ordine mondiale. Zakaria, direttore dell’edizione internazionale di Newsweek e ascoltato nei circoli liberal e conservatori di New York e Washington che contano, vede non tanto un declino americano o dell’occidente (“the west”), ma una crescita di tutti gli altri (“the rest”) da governare con una maggiore integrazione e interdipendenza istituzionale ed economica. L’America non può più fare il bello e il cattivo tempo, scrive Zakaria, ma può e deve ancora guidare il mondo globalizzato. Isolarsi e rifugiarsi in soluzioni protezioniste è profondamente sbagliato, spiega Zakaria, anche perché la globalizzazione ha fatto compiere passi da gigante a tutti: dal 1981 al 2004 la percentuale di persone che vive con un dollaro al giorno è scesa dal 40 al 18 per cento ed è previsto che si abbasserà al 12 per cento nel 2015; la povertà si riduce a ritmi vertiginosi nei paesi che ospitano l’80 per cento della popolazione mondiale e negli ultimi 15 anni l’economia ha raddoppiato la sua dimensione.
In caso di vittoria di un democratico alle elezioni presidenziali americane, il saggio di Zakaria servirà da manuale per convincere Barack Obama e Hillary Clinton ad attenuare le virate protezioniste della loro campagna elettorale. Kagan, invece, ha scritto un manifesto bipartisan per la politica estera di John McCain, non soltanto perché l’analista neocon è uno dei consiglieri del candidato repubblicano, ma anche perché il suo saggio è stato già lodato dal senatore dell’Arizona, oltre che da Joe Lieberman e dai liberal Richard Holbrooke e Robert Cooper (Lieberman è stato il candidato vicepresidente di Al Gore contro Bush e Cheney; Holbrooke è l’ex ambasciatore clintoniano di cui si parla come prossimo segretario di stato in caso di vittoria di Hillary; Cooper è stato uno dei più influenti saggi del laburista Tony Blair).
La tesi di Kagan è che il mondo sia tornato di nuovo normale, dopo il miraggio che il crollo del Muro di Berlino avesse chiuso non soltanto un conflitto ideologico e strategico, ma tutti i conflitti ideologici e strategici. Alla fine della Guerra fredda si era diffusa l’idea, così come è stata definita in un famoso libro di Francis Fukuyama, che la storia fosse finita. Non è così, scrive Kagan. Gli Stati Uniti restano l’unica superpotenza, ma le ambizioni e le passioni nazionaliste che modellano da sempre la storia non sono scomparse. La battaglia per avere una maggiore influenza nello scacchiere internazionale è tornata in auge. E’ riemersa la vecchia competizione tra liberalismo e autocrazia, ma anche l’antica battaglia tra l’islamismo radicale e le culture moderne che i fondamentalisti credono abbiano dominato, penetrato e inquinato il mondo musulmano.
Queste tre battaglie, spiega Kagan, si intersecano, si sovrappongono e fanno esaurire la promessa di quell’era di convergenza internazionale che la fine della Guerra fredda aveva fatto sperare. “Siamo entrati nell’era della divergenza”, spiega Kagan, e il mondo democratico, guidato dagli Stati Uniti, deve decidere come affrontarla, come rispondere alla crescita politica, economica e militare russa e cinese e alla sfida lanciata dagli estremisti islamici. L’ottimismo degli anni Novanta, rintracciabile ancora adesso nel nuovo libro di Zakaria, si basava sulla convinzione illuminista che la costruzione di un sistema più fitto di leggi e istituzioni internazionali avrebbe portato tutte le nazioni a condividere gli stessi interessi. L’Europa aveva pensato a se stessa come a un modello, la Russia sembrava d’accordo e si credeva che l’apertura economica della Cina avrebbe convinto Pechino a sottomettersi al sistema elaborato alla fine della Seconda guerra mondiale. La realtà di questi anni è stata diversa e un osservatore pragmatico come Henry Kissinger, scrive Kagan, aveva ben previsto che la fine della storia immaginata negli anni Novanta era soltanto un’illusione e che la competizione tra stati sarebbe tornata perché è nelle cose della natura umana.
Kagan non crede che lo status dominante degli Stati Uniti sia indebolito, ma come Zakaria è convinto che Washington debba guidare una risposta alle nuove sfide di questo secolo. L’idea di Kagan (e di McCain) è che il sistema di relazioni internazionali a cui ancora Zakaria si appella non è più adatto, perché “non c’è più un codice comune di comportamenti, una moralità internazionale, nemmeno una coscienza internazionale”. Le nazioni democratiche dovrebbero cominciare a lavorare insieme, a incontrarsi in modo stabile, scrive Kagan, non per togliere legittimità all’Onu o al G8 né per condurre crociate a favore della democrazia, ma perché “essere veri realisti vuol dire capire che la politica estera delle nazioni è pesantemente influenzata dalla natura dei governi”.
6 Maggio 2008