Camillo di Christian RoccaThe Left Nation (no, sempre Right, anche se vince Obama)

"Barack Obama è l’uomo giusto al momento giusto – dice Adrian Wooldridge, inglese, capo dell’ufficio di Washington dell’Economist e uno degli osservatori più brillanti della politica e della società americana – Nel paese c’è un enorme desiderio di cambiamento dopo gli anni di George W. Bush, visto che più dell’80 per cento degli americani crede che gli Stati Uniti stiano andando nella direzione sbagliata e chiede una nuova direzione”. Obama è la risposta a questa esigenza, dice Wooldridge, perché “il suo talento personale, il momento storico che stiamo vivendo e la voglia di cambiamento costituiscono, messi insieme, un potentissimo movimento politico”.
Con John Micklethwait, oggi direttore del settimanale globale londinese, nel 2004 Wooldridge ha scritto “The Right Nation” (in italiano “La destra giusta”, Mondadori), il saggio definitivo e senza sopracciò sul radicamento, la profondità e la filosofia della coalizione conservatrice che ha eletto due volte George W. Bush. Definito su queste colonne “il nuovo Tocqueville”, Wooldridge scrive ogni settimana la rubrica Lexington, una lettura imperdibile per chiunque voglia sapere d’America. Col Foglio ha parlato a lungo del fenomeno Obama, il senatore dell’Illinois che si appresta a ottenere la nomination del Partito democratico e a candidarsi, contro John McCain, alla guida della Casa Bianca.
Wooldridge considera Obama, “molto più che un ottimo candidato, un simbolo dei cambiamenti sociali in corso: è una persona disciplinata, ha creato un’efficacissima organizzazione politica, è uno dei migliori oratori americani, è capace di far emozionare le persone in un modo che non riesce a nessun politico e poi, certo, è il primo afroamericano che davvero può diventare presidente. In questo senso, commuove quegli americani che si sentono colpevoli per il modo in cui sono stati trattati i neri”.
Wooldridge insiste sulla questione del “change”, come quella centrale per spiegare il successo di Obama: “In teoria anche Hillary Clinton rappresenta un cambiamento, non solo rispetto a Bush ma anche perché non c’è mai stato un presidente donna, ma non ha enfatizzato il suo essere donna, semmai ha parlato di esperienza – ma anche Dick Cheney rappresenta l’esperienza! – a questo giro la gente non vuole esperti, vuole cambiare. In più – continua Wooldridge – Hillary si è appellata agli anni Novanta, all’era d’oro clintoniana, ma gli elettori hanno un ricordo variegato di quegli anni, senza dimenticare che i giovani sotto i trent’anni hanno sempre vissuto in un paese che è stato governato o da Bush o da Clinton”.
Anche Obama non ha direttamente legato la sua candidatura al colore della sua pelle, anzi si è presentato come un candidato postrazziale: “Non ha mai parlato di razza, ma la questione razziale con lui è implicita, è sempre lì – spiega Wooldridge – Quando parla di voler portare il cambiamento a Washington tutti sanno che non intende soltanto un cambiamento rispetto a Bush, ma qualcosa di più grande: l’elezione del primo presidente nero. Ed è molto più efficace non dirlo apertamente”.
Secondo il giornalista dell’Economist, alla fine conterà Bush, non la razza. Ovviamente il tema razziale non scomparirà e l’elezione di Obama alla Casa Bianca potrebbe essere un fatto epocale, perché farebbe diventare il presidente nero un “role model” capace di influenzare in modo positivo i comportamenti degli afroamericani, molto più delle affirmative action, cioè delle quote riservate ai neri nelle scuole e nella pubblica amministrazione. “Ma la domanda fondamentale che si faranno gli elettori – insiste Wooldridge – è su Bush e sulla sua eredità, sul change rispetto all’esperienza”. Non che il saggista sottovaluti la questione razziale, piuttosto la interpreta nel paradigma del cambiamento: “Al momento queste elezioni sono razzialmente polarizzate, Obama prende il novanta per cento dei voti afroamericani e Hillary la grande maggioranza delle donne”. Ma se Obama non fosse nero, dice Wooldridge, avrebbe da un lato un cammino verso la Casa Bianca facilitato, ma anche una via più difficile da percorrere: “Molti bianchi della working class, in particolare uomini, sarebbero più contenti di votare un bianco invece di un afroamericano, ma se Obama fosse bianco non avrebbe generato quel tipo di passione ed entusiasmo senza il quale probabilmente non sarebbe arrivato dov’è”. Il giornalista dell’Economist nota che “l’esito normale di queste elezioni era la vittoria di Hillary” e che “Obama ha sfidato l’establishment democratico e una macchina politica potente”. Non un compito facile, “specie se vieni dal nulla”. Dice Wooldridge: “Obama aveva bisogno di un forte tratto distintivo e l’essere nero lo ha reso certamente diverso, quindi in questo senso la questione razziale conta moltissimo perché per affrontare un’organizzazione politica come quella dei Clinton doveva essere una stella e avere una specie di star power”. Obama c’è l’ha, “grazie alla sua abilità oratoria, alla macchina organizzativa che ha messo in piedi e al fatto di essere afroamericano”.
I Clinton accusano Obama di essere “elitario”, incapace di saper parlare alla gente comune: “Il ceto medio professionale si identifica con Obama perché è un intellettuale, e per la stessa ragione una parte della working class pensa che il senatore non sia come loro”. Tutto vero, dice Wooldridge, ma in questa analisi c’è il rischio di non comprendere che cosa sia il mainstream americano, come sia cambiato: “Obama ha una difficoltà naturale a parlare con la working class popolare e con chi non ha studiato, ma quell’America non è più il mainstream, resta una larga fetta dell’elettorato, ma oggi più del 30 per cento degli americani è laureato, il mainstream è cambiato, ed è sempre più l’elitario Starbucks e sempre meno il popolare Dunkin’ Donuts”.
Obama è anche il candidato che, specie all’inizio della sua campagna elettorale, ha usato più di tutti il linguaggio religioso: “I suoi discorsi sono infusi di toni e retorica spirituale tratta dai predicatori afroamericani, ma la sua è la religione del liberalismo, non parla di Dio,  parla dei valori liberal, della religione civile americana”. Nel merito, spiega Wooldrige, “Obama resta prochoice, favorevole all’aborto, ma alle elezioni di novembre dovrà conquistare i voti del centro, per cui  tornerà a parlare di patriottismo, di unificazione del paese, di superamento della guerra culturale”.
L’America, spiega Wooldrige, “nei suoi valori fondamentali è e resta una right nation, più patriottica, più religiosa, più assertiva nelle relazioni internazionali di qualsiasi paese europeo. E’ un paese di centrodestra profondamente deluso da Bush e dall’establishment conservatore. Il vero pericolo per i democratici – continua – è quello di voler strafare, di svegliare la bestia dormiente della Right Nation. E’ facile immaginare come il trionfo di Obama possa elevare enormemente le aspettative dei liberal e, in due anni, far crollare tutto, aprendo la strada al ritorno di una maggioranza di centrodestra”.
Wooldridge arriva quasi al punto di considerare “unfit to lead the country” le politiche di Obama: “Io sono molto favorevole al fenomeno Obama, a una figura politica così convincente e capace di rompere con l’eredità dei Clinton, ma bisognerà anche vedere quali saranno le sue azioni politiche. La gente non lo vota perché vuol dare più potere ai sindacati o introdurre nuove regolamentazioni, lo vota perché è l’agente del cambiamento, anzi più porta avanti le politiche prettamente liberal, più fa scappare la gente. C’è voglia di cambiamento, ma non un vero desiderio di ricette liberal”.
Wooldridge conclude con un paragone che non farà piacere ai fan del senatore: “Nel 2000 Bush è stato un candidato molto simile a Obama, aveva un messaggio dello stesso tipo, ha condotto una campagna disciplinatissima con un programma molto vago centrato sul cambiamento e sulla volontà di restaurare la dignità alla Casa Bianca. Era un ‘uniter’ non un ‘divider’. Aveva una connessione naturale con la Right Nation, come quella di Obama con la Left Nation, ha perfino avuto un problema con un predicatore troppo radicale. C’è una sola differenza: nel 2000 la maggioranza degli americani credeva che il paese stesse andando nella giusta direzione, ora pensa che sia sul binario sbagliato. Questo vuol dire che il compito di Obama è più facile, ma anche che il successo di Bush è stato più straordinario”.
di Christian Rocca