New York. La maggioranza degli americani ha un giudizio negativo di George W. Bush da oltre tre anni. Dalla fine del 2006, il gradimento del presidente non ha più superato il quaranta per cento, mentre sono mesi che si aggira intorno al trenta per cento. L’ultima rilevazione dice che solo 28 americani su cento credono che Bush stia facendo bene. Soltanto il democratico Harry Truman e il repubblicano Richard Nixon ai tempi del Watergate hanno fatto peggio, 22 e 24 per cento. Oggi però Truman è considerato un gigante americano e anche Nixon è stato rivalutato, non soltanto dal film di un anarchico radicale come Oliver Stone ma anche da Barack Obama, a cui capita spesso di ripetere che la strategia nixoniana di trattare con i nemici sarà un modello per la sua presidenza. Il fattore Bush ha avuto un ruolo non secondario nella vittoria di Obama. Hillary Clinton non aveva impostato la propria strategia all’attacco del presidente, anche perché l’aveva autorizzato a invadere l’Iraq. Obama invece si era schierato contro la guerra quando ancora non era senatore e ha marcato il primo e decisivo punto sottraendo a Hillary l’ala sinistra del partito, grazie anche all’aiuto dei media che hanno fatto dimenticare le dichiarazioni obamiane pro Bush quando la guerra era ancora popolare e i suoi continui voti al Senato a sostegno delle truppe in Iraq (identici a quelli di Hillary).
L’ombra di Bush ha oscurato anche il campo repubblicano, tanto che John McCain ora deve difendersi dall’accusa di candidarsi al terzo mandato di Bush. Uno dei motivi per cui McCain ha vinto le primarie è proprio quello di essere stato storicamente un avversario di Bush, ma anche di aver criticato fin dall’inizio la strategia militare irachena del presidente. McCain ha chiuso la partita quando la sua idea di inviare più uomini e di rielaborare i piani è stata prima adottata dalla Casa Bianca e poi ha cominciato a produrre risultati. Ora McCain si trova nella paradossale situazione di essere accostato a Bush perché non si vuole ritirare dall’Iraq, malgrado la sua strategia sia un successo. Bush è radioattivo. Una fetta del partito repubblicano non perdona a McCain di condividere col presidente le politiche pro-immigrazione, quelle che peraltro gli potrebbero consegnare i voti ispanici. McCain critica Bush dove può, per esempio su Katrina, ma è sulla difensiva. Senonché comincia a circolare l’idea che prima o poi la storia potrebbe ricordare Bush in modo diverso da quanto riportano le cronache.
(segue dalla prima pagina) Pensare in questo momento a una riabilitazione di Bush è assurdo, ha scritto sul mensile liberal Atlantic Monthly l’opinionista conservatore Ross Douthat. “Ma prima di mettervi a ridere – ha spiegato – ricordatevi che quasi ogni reputazione presidenziale, non importa quanto macchiata, alla fine trova qualcuno disposto a difenderla”. La strategia bushiana post 11 settembre ha avuto a lungo il sostegno dei liberal, quasi commossi dalla sua fiducia nell’abilità dell’America di ricostruire il mondo. Secondo Douthat, Bush avrà bisogno di due condizioni per riconquistare il consenso: che non capiti nessuna calamità economica, sennò sarà ricordato come Herbert Hoover o James Buchanan; e che alla fine l’intervento in Iraq sia percepito come un successo, invece che una follia. “La parola cruciale è ‘alla fine’ – spiega Douthat – se l’Iraq del 2038 sarà un paese stabile e gli americani manterranno una presenza nel paese, nessuno si sorprenderà se se ne darà il merito a Bush”. Douthat ricorda che gli americani tendono a perdonare i propri leader per gli errori del momento e a confondere l’arroganza con la grandiosità. E’ capitato con l’occupazione delle Filippine e Teddy Roosevelt, con i disastri idealistici di Woodrow Wilson, con la guerra coreana di Truman. “Se Johnson o Nixon avessero trovato un modo di sostenere il Vietnam del sud fino agli anni Novanta – ha scritto Douthat – sarebbero stati perdonati e ricordati come eroi alla Truman”. Gli americani amano i presidenti ideologi e militanti, anche quando sono stati disastrosi, piuttosto che i bravi e competenti amministratori. Bush è un presidente che insegue la grandezza e il posto nella storia. Il paradosso, secondo Douthat, è che sarà più facilmente riabilitato in caso di elezione di Obama. Se vince McCain si consoliderà l’idea che la nuova strategia irachena è sua, non di Bush. Se, invece, vince un oppositore del “surge” come Obama – il quale poi sarà costretto a non discostarsi dall’approccio attuale – i posteri ricorderanno la strategia Petraeus come una saggia decisione di Bush.
Christian Rocca
6 Giugno 2008