Camillo di Christian RoccaThat's it/15

New York. “The Boathouse” sul lato nordorientale del Lago di Central Park. L’entrata è sulla Quinta Avenue, all’altezza della settantaduesima strada. Il pensatore Franco Zerlenga sceglie un tavolo appartato con magnifica vista sul “lake”, consulta un saggio di Olivier Pétré-Grenouilleau dal titolo “La tratta degli schiavi” (“c’è il mito che i bianchi andavano in Africa a catturare schiavi neri, ma guarda un po’ erano i musulmani che li vendevano”), si prepara a un viaggio a Neuchâtel, Svizzera, per organizzare una conferenza newyorchese su Friedrich Dürrematt e ordina una zuppa di mais come antipasto e gamberoni alla griglia accompagnati da finocchi e insalata di pompelmo come piatto principale. Cittadino italiano e americano, ex professore di storia dell’Islam alla NYU, Zerlenga alterna riflessioni sul paese natale a considerazioni sulla campagna elettorale americana: “I miei comici preferiti – dice – sono Jon Stewart, Steve Colbert e Paolo Garimberti”. Stewart e Colbert sono ‘comedian’ che conducono due finti talk show politici, Garimberti è un valoroso giornalista di Repubblica che dirige la tv online del quotidiano romano di cui incomprensibilmente Zerlenga non perde un fotogramma. Dice il Prof. che Garimberti e i suoi ospiti hanno commentato come una tragedia epocale la decisione europea di portare a 65 il numero di ore di lavoro a settimana: “Si facciano un giro in America”. Zerlenga ce l’ha anche con il ministro Renato Brunetta che vuole coinvolgere i sindacati per riformare l’amministrazione pubblica: “Se il gestore di un ristorante vuole cambiare il menu – dice – va a parlare con il cuoco, non con i camerieri”.
Zerlenga passa alle presidenziali con una premessa sulla mamma di Obama, “un grande personaggio, una donna coraggiosa, una specie di Galileo, di Newton, di Einstein”.
Questa donna bianca del Kansas negli anni Sessanta ha fatto una scelta rivoluzionaria sposandosi un uomo di colore, paragonabile per quei tempi all’Eppur si muove di Galileo e ai calcoli di Newton. Quanto ad Einstein, Zerlenga racconta che quando lo scienziato è arrivato in America disse agli ufficiali dell’immigrazione di appartenere alla “razza umana”, invece che a quella caucasica. Nel suo piccolo, Zerlenga ha fatto lo stesso, quando ha ottenuto la cittadinanza americana, aggiungendo sul modulo di accettazione “if it’s good for Einstein, it’s good for me too”.
La candidatura di Obama, comunque vada a finire, ha cambiato la società, spiega Zerlenga, e ha fatto riconquistare un equilibrio al Partito democratico. L’excursus storico sulla razza e la politica è molto profondo ma la parte più interessante è quella della “white guilty”, della colpa che pesa sui bianchi, che ha dominato la storia recente del Partito democratico. “Il partito anti schiavitù è stato quello repubblicano, soltanto con Kennedy e Johnson i democratici sono diventati i difensori dei neri, ma da quel momento in poi è diventato impossibile dentro il partito avere un giudizio equilibrato sui neri”. Zerlenga racconta i casi di Clarence Thomas, ma anche di Colin Powell e Condi Rice, esponenti repubblicani di colore, nominati dai Bush in vari posti dell’Amministrazione: “Quando al Senato Clarence Thomas ha detto che i democratici lo stavano ‘linciando’, ha subito ottenuto il voto di conferma alla Corte Suprema; se Colin Powell avesse proposto di bombardare un paese qualsiasi, gli avrebbero detto ‘yes’; mentre la Rice è stata trattata come una madonna vergine benedetta, quando dopo l’11 settembre chiunque avrebbe dovuto chiederne il licenziamento”. Tutto ciò è finito, spiega Zerlenga: “Hillary Clinton ha sdoganato gli attacchi a un nero” e ora, finalmente, i democratici si sono liberati di quest’ultimo retaggio razzista. (chr.ro)

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