Camillo di Christian RoccaBarackonomia

Denver. La seconda giornata della convention del Partito democratico ha vissuto lo psicodramma di Hillary Clinton, con i suoi appelli all’unità e l’irrisolta questione della reale fedeltà dei suoi elettori al nuovo leader Barack Obama. Il tema politico della giornata, però, è stato quello dell’economia con il “keynote speech”, il discorso d’indirizzo politico della convention, affidato all’imprenditore high-tech, ex governatore della Virginia e attuale candidato al Senato, Mark Warner.
Nel 1992 alla Casa Bianca c’era un altro Bush, il padre dell’attuale presidente. Alle elezioni di novembre, Bush sen ior sembrava imbattibile, grazie al tradizionale vantaggio dei repubblicani sulle questioni di sicurezza nazionale e agli sviluppi della situazione internazionale in Iraq e nell’area dell’ex impero sovietico. L’economia, però, cominciava a dare segni di stanchezza e James Carville, lo stratega politico del giovane candidato democratico Bill Clinton, s’inventò uno slogan per spiegare agli americani che Clinton sarebbe stata una scelta migliore per le prospettive economica del ceto medio: “It’s the economy, stupid”, che ancora oggi fotografa il principale punto di forza dei democratici a ogni ciclo elettorale. Gli altri due slogan, sempre di moda di questi tempi d’obamamania erano “change vs more of the same” e “non dimentichiamoci della sanità”.
La forza del messaggio di Obama, ha scritto David Brooks sul New York Times, è la sua naturale distanza dalle vecchie guerre culturali, sociali e politiche e, soprattutto, la sua geometrica appartenenza a una nuova era moderna, globale e multiculturale che lui e la sua famiglia, come si è visto sul palco di Denver lunedì sera, rappresentano alla perfezione. La freschezza obamiana si avverte anche nella sua filosofia economica, l’Obamanomics, che per quanto ancora confusa e contraddittoria, è una via di mezzo pragmatica e non ideologica tra il liberismo reaganiano e l’interventismo keynesiano.
(segue dalla prima pagina)  Il New York Times ha definito Obama “a Free-Market-Loving, Big-Spending, Fiscally Conservative Wealth Redistributionis”, ovvero un politico che contemporaneamente è liberista, statalista, conservatore fiscale e anche un socialista che vuole redistribuire la ricchezza.
Questo vuol dire che a sinistra è accusato di essere un populista, ma anche di essere troppo attento alle ragioni dei mercati. Allo stesso modo, e per le stesse ragioni, le sue ricette economiche vengono lodate dall’estrema sinistra e da Wall Street. Anche a destra non sanno bene se definirlo come un radicale oppure come il più centrista e moderato dei politici liberal.
La difficoltà di ingabbiare la sua filosofia economica, di nuovo, è il prodotto del superamento delle vecchie battaglie del passato e dell’emersione di una nuova generazione globalizzata e post ideologica a cui Obama ha dato un volto, una rappresentazione e una speranza. Obama e i suoi consiglieri economici sono cresciuti nell’ambiente dell’Università di Chicago e, da liberal, sono capaci di apprezzare i meriti dell’approccio liberista elaborato della Scuola di Chicago di Milton Friedman senza per questo sentirsi traditori delle loro più tradizionali idee di sinistra. Allo stesso modo, sul fronte sinistro, non si fanno problemi a contestare l’idea dei trattati di libero scambio, il caposaldo della politica di governo della globalizzazione negli anni 90.
“Al centro della mia teoria economica – ha detto Obama al magazine del Times – c’è il pragmatismo, cercare di capire che cosa funziona e che cosa no”. L’Obamanomics prova così a superare “la guerra dei Bob”, da Bob Rubin e Bob Reich, i due principali consulenti economici degli anni clintoniani. Bill Clinton aveva scelto la strada indicata da Rubin, uomo della finanza, convinto che per far ripartire l’economia bisognava ridurre il deficit per dare sollievo al mercato obbligazionario e abbassare i tassi di interesse. L’approccio di Reich per stimolare l’economia e aiutare il ceto medio, invece, era di investire nelle infrastrutture.
Obama e i suoi consiglieri Jason Furman, Austan Goolsbee e Cass Sunstein sono convinti che la politica liberista rubiniana abbia contribuito al boom economico degli Anni Novanta, ma riconoscono che il successo sia dovuto anche alla bolla tecnologica e ai bassi prezzi del petrolio. Oggi la situazione economica è diversa e le risposte politiche vanno adattate alle nuove esigenze, per esempio seguendo le indicazioni di Reich di investire in infrastrutture e nella copertura sanitaria quasi universale. Gli obamiani oggi sembrano meno interessati a pareggiare il bilancio o, perlomeno, così fanno intendere perché viceversa dovrebbero aumentare le tasse, non solo ai più ricchi.
Christian Rocca

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