Camillo di Christian RoccaLa politica estera di Obama

Denver. Va bene Hillary e l’unità di partito, va bene Michelle e il ritratto personale di suo marito, ma è stata ieri la giornata più importante della convention di Barack Obama. Non solo perché, dopo aver formalmente riconosciuto alla Clinton il valore di quei diciotto milioni di voti conquistati alle primarie, i delegati lo hanno ufficialmente nominato candidato alla presidenza degli Stati Uniti, ma perché il senatore dell’Illinois ha schierato in diretta televisiva i big del partito, da Bill Clinton al candidato vicepresidente Joe Biden, per parlare di sicurezza nazionale e di politica estera, ovvero dei due temi su cui continua a soffrire la maggiore esperienza di John McCain. La giornata era cominciata male, con un sondaggio Cnn che mostrava un forte vantaggio di McCain (dieci punti: 51 a 41 per cento) sull’affidabilità dei candidati nelle questioni di politica estera. Gli elettori, secondo il sondaggio Cnn, pensano che “McCain sia meglio di Obama sul terrorismo e sull’Iraq e considerano McCain un leader più forte e capace di giudicare meglio la situazione in una crisi internazionale”. McCain, inoltre, ieri ha lanciato l’ennesimo spot per sottolineare l’impreparazione di Obama a governare: “Obama sostiene che l’Iran sia un ‘piccolo’ paese che ‘non rappresenta una minaccia per gli Stati Uniti’: Obama è pericolosamente impreparato a fare il presidente”, recita lo spot che, però, stravolge il senso delle parole del candidato democratico e non tiene conto delle numerose volte in cui ha detto l’opposto. Il team Obama sa bene che questo è il punto debole, malgrado qualcuno avesse pensato che si potesse vincere sull’onda dell’opposizione alla guerra in Iraq. La terza giornata della convention, intitolata “Securing America’s Future”, è stata congegnata proprio per rassicurare gli americani su un’eventuale Amministrazione Obama e per spiegare agli elettori le sue idee volte a “rendere l’America più forte e sicura”, oltre che per onorare “gli uomini e le donne che si sacrificano per la sicurezza dell’America”.
La scelta di Joe Biden come vice, con il suo lungo curriculum da presidente della commissione Esteri del Senato, risponde alla stessa esigenza di aggiungere sostanza al ticket presidenziale (anche se in Iraq i leader politici sciiti, sunniti e curdi ricordano con fastidio che nel 2006 voleva dividere il paese in tre stati etnico-religiosi), ma allo stesso tempo denuncia il riconoscimento di una debolezza evidente. Senza considerare, ha spiegato martedì un sondaggio Gallup che dà McCain in vantaggio di 2 punti, che aver scelto come vice Biden, cioè uno dei simboli della politica di Washington, ha anche annacquato il messaggio di cambiamento e di novità alla base della sua candidatura.

Più verso Bush
Obama e Biden offrono all’America impegnata in due guerre mediorientali, e attenta all’evoluzione della situazione ai confini della Russia, una “nuova e forte politica estera che non è né repubblicana né democratica, ma solida, intelligente e capace di renderci più sicuri a casa e di far avanzare i nostri interessi nel mondo”. L’ex clintoniano Greg Craig, che con Tony Lake e Susan Rice guida il team di sicurezza nazionale di Obama, ha spiegato che l’approccio obamiano alle questioni internazionali non è ideologico, salvo i sempre più rari riferimenti all’obbligo morale di fermare i genocidi nel mondo. L’Amministrazione Obama sarà pragmatica e realista, più tradizionalmente di destra che di sinistra (Obama cita spesso George Bush senior), attenta inoltre a valutare caso per caso, pronta ad ascoltare i consigli degli alleati e a confrontarsi diplomaticamente con i nemici. La sensazione è che la ragionevolezza di questo approccio possa fare presa solo in momenti storici in cui la sicurezza nazionale non è al centro del dibattito e che alla fine sia costretta a scontrarsi con la realtà. La crisi georgiana, su cui Obama è costretto a rincorrere Bush e McCain, è un esempio.
I democratici provano a far passare l’idea che la guerra al terrorismo sia finita: il programma del partito la cita solo una volta e sul palco del Pepsi Center non se ne parla, al contrario di 4 anni fa a Boston. “Questa mentalità da tempi di pace – ha avvertito il liberal Jonathan Rauch sul National Journal – malgrado sia prevalente, è fragile”. Il paradosso, per un candidato che ha vinto le primarie grazie alla sua iniziale opposizione alla guerra in Iraq, è che l’assenza della minaccia islamica radicale dalle prime pagine dei giornali e dell’Iraq dalla televisione si deve al successo della politica post 11 settembre di Bush, alla nuova strategia militare applicata dal generale David Petraeus, invocata da McCain e contrastata da Obama.

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