Camillo di Christian RoccaObama sul podio

Denver (Colorado). Primo candidato nero alla presidenza degli Stati Uniti, Barack Obama ha accettato la nomination del Partito democratico davanti a settantacinquemila persone dell’Invesco Field, entrando nelle case di milioni di spettatori incollati alla televisione, nel giorno del quarantacinquesimo anniversario del celebre discorso “I have a dream” di Martin Luther King. Introdotto dai leader della stagione dei diritti civili e da Al Gore e ispirandosi ai grandi discorsi di John Fitzgerald Kennedy (1960), Ronald Reagan (1980) e Bill Clinton (1992), Obama si è ripresentato agli elettori americani, ancora estasiati dall’enorme portata dell’evento, dalla storia che viene scritta davanti ai loro occhi, ma sempre privi degli elementi necessari a capire chi è, che cosa pensa e che cosa vuole il primo possibile presidente nero, l’uomo capace di annichilire la potente macchina da guerra clintoniana.
Il candidato Obama resta elusivo, ha ammesso il New York Times. Ma per certi versi questa è la sua forza. All’Invesco Field, Obama ha spiegato le profonde differenze programmatiche tra lui e John McCain, ha rinnovato il messaggio idealista che lo ha reso famoso e ha riprovato a catturare il ceto medio e i lavoratori meno istruiti, i meno influenzabili dalla sua prosa elegante e raffinata e dalla sua campagna cerebrale.
Obama ha parlato da un podio circolare posto al centro dello stadio, davanti a quinte ornate con otto colonne greche che ricordano l’architettura governativa di Washington. Giornali e i blog conservatori si sono divertiti a sottolineare ancora una volta la presunzione obamiana che – dopo il sigillo simil presidenziale e la richiesta di parlare alla Porta di Brandeburgo di Berlino, come se fosse già capo di stato – ora l’ha portato a farsi un tempio (anche Bush, nel 2000, aveva il colonnato, ma era già presidente).
(segue dalla prima pagina) Qualche big democratico aveva espresso dubbi sulla decisione di chiudere con un evento così clamoroso come il comizio all’Invesco Field, perché Barack Obama ha già mostrato in abbondanza la sua capacità di riempire stadi e il suo status da rock star. John McCain, però, fatica a riempire la sala dove oggi presenterà il suo vice.
Alla fine resteranno soltanto le immagini pirotecniche di ieri notte e l’incredibile storia dell’incoronazione di un giovane politico nero di Chicago a cui soltanto otto anni fa il partito non aveva concesso l’accredito per assistere alla convention di Los Angeles. Denver però avrebbe dovuto essere l’occasione per definire meglio il candidato Obama e il suo progetto per l’America. La sensazione, anche a causa della difficile partita con i Clinton, è che alla convention sia mancato un filo conduttore, un messaggio positivo e che, come nel 2004, i democratici si siano fatti definire dall’opposizione a Bush.
Obama però lascia Denver con il partito in mano, anche se c’è riuscito a scipparlo ai suoi ex leader soltanto nel quarto e ultimo giorno, e con la breve e furba apparizione di mercoledì, al termine del discorso del candidato vicepresidente Joe Biden. Fino ad allora era stata la convention dei Clinton, con Hillary e Bill a dominare la scena, prima con il lucido discorso della senatrice, freddino con Obama, poi con il colpo a sorpresa sempre di Hillary che ha chiesto la sospensione della conta dei delegati e la nomina di Obama per acclamazione. Infine, con l’investitura forte e diretta pronunciata da Bill, come a voler sottolineare che comunque sia andata a finire sono comunque loro, i Clinton, a garantire per Obama e ad avergli graziosamente consegnato il partito. L’apparizione imprevista di Obama accanto a Biden gli è così servita a riprendersi il partito, le immagini televisive e i titoli dei giornali.
Obama può essere soddisfatto anche della prima serata. Malgrado sia stata debole dal punto di vista politico, Michelle ha colto l’occasione per raccontare suo marito, candidato nero alla presidenza, non come una stramba e pericolosa eccezione, piuttosto come una grande storia tipicamente americana.
Il resto è andato meno bene: non sono mancate le critiche a Bush, ma il presidente non sarà sulla scheda elettorale di novembre, mentre gli attacchi a John McCain sono arrivati soltanto alla fine e quasi sempre accompagnati da lodi e applausi al McCain che fino a un paio d’anni fa i democratici avevano imparato ad amare.
Associare McCain e Bush resta un’operazione difficile per i democratici e lo confermano i finti lapsus verbali di chi si è alternato sul podio (“Bush, no, scusate: McCain”). Il candidato repubblicano, per anni, è stato definito come l’anti Bush dagli stessi politici e analisti che oggi provano a spiegare che la sua elezione sarebbe la continuazione dell’attuale presidenza. John Kerry, a sorpresa l’oratore più efficace della convention, è stato durissimo con McCain, ma soltanto quattro anni fa, quando aveva vinto le primarie democratiche per sfidare Bush, aveva pensato proprio a McCain come suo candidato ideale alla vicepresidenza.
La convention, inoltre, ha fallito sui temi della sicurezza. I democratici non sono riusciti a togliersi di dosso l’immagine disfattista, pacifista e ritirista che li contraddistingue dal Vietnam e che solo Clinton, nel suo secondo mandato, è riuscito a modificare. L’economia è il punto più forte per i dems e su questo, sia pure in modo scomposto, la convention ha provato a farsi sentire, ma ieri è arrivata la notizia che il prodotto interno lordo americano, nell’ultimo trimestre, è cresciuto del 3,3 per cento. Altro che crisi.
Il vento è alle spalle di Obama, il primo sondaggio Gallup post convention segnala un vantaggio di sei punti su McCain. Si annuncia, inoltre, come altrettanto storico il numero di nuovi elettori che Obama riuscirà a portare alle urne. McCain dovrà ripetere la mobilitazione bushiana del 2004 e la sua convention che si apre lunedì a St. Paul, in Minnesota, arriva a proposito. Ma il paragone con i 75 mila di Obama potrebbe fare male.
    Christian Rocca

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