New York. Mancano settantasei giorni alle elezioni presidenziali americane del 4 novembre, cinque alla Convention democratica di Denver che nominerà Barack Obama e dodici a quella di Minneapolis-St.Paul che lancerà ufficialmente la sfida del repubblicano John McCain. Tradizionalmente gli americani cominciano a prestare attenzione ai candidati e ai loro programmi dopo Labor day, la festa del lavoro che negli Stati Uniti si festeggia il primo lunedì di settembre. Ma già adesso i sondaggi sono quotidiani e gli osservatori più attenti come lo stratega elettorale di George W. Bush, Karl Rove, sono già in grado di fotografare nel dettaglio lo stato della corsa con una cartina colorata che parla da sola.
Probabilmente già domani, al più tardi nel weekend, Obama sceglierà il suo vicepresidente che, salvo sorprese (Al Gore? Hillary Clinton? un repubblicano?), dovrebbe essere uno tra il senatore Joe Biden, esperto di politica estera, il senatore centrista dell’Indiana Evan Bayh, il governatore della Virginia Tim Kaine, il senatore del Rhode Island Jack Reed, l’ex senatore ed esperto di proliferazione nucleare Sam Nunn. La scelta è importante perché il vice colma le debolezze del candidato alla Casa Bianca oppure aiuta a conquistare uno degli stati in bilico e decisivi per la vittoria elettorale.
Il repubblicano McCain risponderà tra due venerdì, in Ohio, il giorno dopo della fine della convention di Obama. Nella sua lista di possibili vicepresidenti ci sono il governatore del Minnesota Tim Pawlenty, l’ex governatore della Pennsylvania Tom Ridge, l’ex sfidante Mitt Romney, l’ex direttore dell’Ufficio del Budget e rappresentante del Commercio estero Rob Portman e il senatore del Sud Dakota John Thune, ma McCain potrebbe puntare anche sul senatore democratico Joe Lieberman (già candidato vicepresidente nel 2000, con Al Gore), la giovane governatrice dell’Alaska Sarah Palin, il trentaseienne governatore indo-americano della Louisiana Bobby Jindal e l’ex presidente di eBay Meg Whitman. Negli ultimi giorni, McCain non ha escluso la possibilità di nominare un vice pro-choice, cioè favorevole al diritto all’aborto, facendo alzare le quotazioni di Ridge e Lieberman, anche se la scelta di annunciare il candidato vicepresidente in un comizio in Ohio fa pensare a Portman, ex deputato di Cincinnati.
Oggi la corsa verso la Casa Bianca vede Obama leggermente in testa. Tutti i sondaggi degli ultimi mesi, da prendere con le molle, sono favorevoli al senatore democratico. Le ultime rilevazioni nazionali danno un vantaggio di 2 o 5 punti a Obama. Nelle ultime settimane, la differenza si è assottigliata e, complice un cambio di vertici e di strategia, la campagna McCain ha cambiato marcia, ha regolato il proprio messaggio, attacca duramente Obama e si prepara a spendere 96 milioni di dollari nei prossimi dieci giorni.
I commentatori liberal e numerosi dirigenti democratici cominciano a essere preoccupati perché, considerato lo straordinario fenomeno Obama e la quantità di soldi raccolti, a questo punto i numeri dovrebbero essere molto più favorevoli al senatore democratico, tanto più che l’impopolarità di George W. Bush è alle stelle (anche se comincia ad affacciarsi la pubblicistica revisionista). Se si aggiungono la percezione di vivere una recessione economica, la crisi dei mutui, le due guerre in medioriente e il prezzo della benzina, queste elezioni dovrebbero essere una passeggiata per i democratici. Senonché l’aver scelto un giovane e inesperto candidato di colore come Obama (ma la stessa cosa sarebbe successa con una donna così odiata da metà paese, come Hillary) le rendono molto aperte. Il senatore dell’Illinois, come si è visto alle primarie contro la Clinton, non è ancora riuscito a convincere in pieno la “classe lavoratrice bianca”. I boss locali del Partito democratico affidano al Times la loro preoccupazione: Obama parla di cambiamento, ma non di cose concrete e per questo non riesce a trovare una connessione reale con gli elettori comuni.
C’è tempo, spiegano gli obamiani, la campagna elettorale non è ancora cominciata. McCain, lunedì lodato a sorpresa da Bill Clinton per le sue posizioni ambientaliste contro il surriscaldamento terrestre, sta cercando di recuperare con parole d’ordine populiste ma efficaci come “drill here, drill now”, trivelliamo qui, trivelliamo subito, per abrogare il divieto federale di cercare nuovi giacimenti di petrolio al largo delle coste americane e in Alaska. Obama e i democratici (ma un tempo anche McCain) sono contrari e hanno criticato il senatore repubblicano, ma due giorni fa la speaker della Camera Nancy Pelosi ha lasciato intendere che il partito potrebbe presto cambiare idea.
La crisi internazionale tra Russia, Georgia e Nato – così come il miglioramento della situazione in Iraq, dovuto in gran parte alla nuova strategia del generale David Petraeus invocata da McCain e ostacolata da Obama – si riflettono nei sondaggi nazionali che segnalano la crescita del senatore repubblicano, anche perché sulle questioni di sicurezza nazionale McCain è considerato dagli elettori americani più affidabile dell’inesperto Obama.
I sondaggi nazionali però non contano niente, dicono i manager del team Obama. Il sistema elettorale infatti non elegge alla Casa Bianca chi ottiene più voti popolari nazionali, ma chi conquista almeno 270 Grandi Elettori, assegnati ai singoli stati dell’Unione sulla base del numero degli abitanti. In sintesi bisogna vincere negli stati, come spiega la cartina elaborata di Karl Rove.
L’architetto delle ultime due vittorie presidenziali si è studiato tutti i sondaggi statali dell’ultimo mese e ha assegnato ciascuno dei cinquanta stati più Washington D.C. a McCain (in rosso) e a Obama (in blu) ovunque uno dei due candidati ha un margine di vantaggio superiore ai tre punti. Rove ha colorato di giallo gli stati dove la differenza tra i due candidati è minima, inferiore ai tre punti. La partita si gioca qui, in questi otto stati che, in totale, assegneranno 84 Grandi Elettori. Gli altri 43 stati, salvo sorprese, sono già al sicuro per l’uno e per l’altro, anche se la crescita di McCain si nota nel dimezzamento dello scarto in stati obamiani come il Wisconsin o New York. Se si votasse oggi, secondo Rove, Obama avrebbe 260 Grandi Elettori, contro i 194 di McCain, cioè sarebbe a un passo dalla quota presidenziale di 270. La cartina di Rove mostra come le strade di Obama per la Casa Bianca siano più d’una. Ora il dilemma della sua campagna è se perseguirle tutte e quindi puntare a una grande vittoria a valanga, oppure se concentrarsi sulla via più diretta per evitare che la dispersione di impegno, forze e denaro finisca per non fargliene imboccare nemmeno una. Obama può raccogliere i 10 voti necessari a diventare presidente vincendo in Florida (27 voti), in Ohio (20), in Virginia (13) oppure combinando i 9 voti del Colorado con i 5 del Nevada, i 4 del New Hampshire o i 3 di Montana e Nord Dakota. McCain, invece, deve vincere praticamente in tutti gli stati in bilico e può tentare soltanto in Michigan (17 voti) e forse in Pennsylvania (21) una difficile sortita nel campo obamiano. Al di là dei numeri di questi giorni, Rove crede che la Florida sia salda nel campo McCain e che, alla fine, saranno Colorado, Virginia, Michigan e Ohio i quattro stati che decideranno il quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti.
20 Agosto 2008