Il massiccio intervento pubblico, 700 miliardi di dollari – adottato nei giorni scorsi dall’Amministrazione Bush e ancora allo studio del Congresso – per salvare Wall Street dalla crisi finanziaria ha cambiato la dinamica della corsa alla Casa Bianca a favore di Barack Obama, ma non ha ancora convinto in pieno i due candidati alla presidenza. Obama e John McCain hanno più volte cambiato idea e atteggiamento sul piano ideato dal Tesoro di Bush, alternando dichiarazioni di apprezzamento a dubbi.
Tra i due candidati, il più favorevole al piano Bush è Barack Obama. Il candidato democratico accusa l’Amministrazione repubblicana di non aver evitato la crisi, ma quanto alle soluzioni preferisce comodamente rifugiarsi dietro le scelte di Bush. John McCain invece non ne è convinto, un po’ perché è ideologicamente contrario all’eccessivo intervento pubblico, un po’ perché ha adocchiato un possibile varco politico per dimostrare al paese che malgrado l’età e l’anzianità a Washington Obama fa parte dell’establishment e lui è l’outsider.
Sui giornali cominciano a comparire le prime critiche al piano di salvataggio pubblico di Wall Street, fin qui limitate agli interventi accademici dell’economista italiano Luigi Zingales e al blog dell’ex ministro del lavoro di Bill Clinton, Bob Reich. Ieri il Wall Street Journal ha avuto uno scatto d’orgoglio liberista, mentre su un piano più politico, il New York Times ha pubblicato due opinioni, una di sinistra con Paul Krugman e una di destra con Bill Kristol, che giungevano alla stessa conclusione: quella di Bush e Paulson non è la scelta giusta.
Obama insiste sull’adottare soluzioni condivise e bipartisan, ma anche McCain ha proposto di nominare una commissione di vigilanza composta dal finanziere obamiano Warren Buffett, dall’ex businessman repubblicano Mitt Romney e dal sindaco di New York Mike Bloomberg. McCain però esprime anche toni più populisti, sottolineando che i manager delle aziende fallite e comprate dallo stato non dovranno ricevere una lira in più di quanto guadagnano i dipendenti federali. I democratici sono più o meno d’accordo, ma nelle loro richieste a Paulson insistono su emendamenti più tecnici e seri.
McCain, inoltre, ieri ha detto di essere “ampiamente preoccupato per il fatto che il piano governativo dia a un singolo individuo, il segretario al Tesoro, il potere senza precedenti di spendere mille miliardi di dollari senza prevedere alcuna seria responsabilità”. Non è mai successo, ha detto McCain, e questa soluzione “mi mette profondamente a disagio”. Bush ha chiesto di non modificare il progetto elaborato dal suo governo, perché ogni perdita di tempo e ogni limitazione potrebbe avere conseguenze devastanti ben oltre Wall Street.
La campagna elettorale scorre su due livelli. In quello più basso non vengono risparmiati colpi, accuse, spot con cui McCain e Obama si accusano a vicenda di legami con i principali responsabili del disastro finanziario. Ancora ieri, McCain ha ricordato che il suo avversario è cresciuto nell’ambiente corrotto della politica di Chicago e Obama, replicando a spot della settimana scorsa sui suoi consiglieri vicini ai giganti dei mutui andati in fallimento, ha sottolineato le consulenze milionarie di alcuni uomini di McCain con le stesse istituzioni finanziarie che hanno creato la crisi.
Su un altro piano, la partita si gioca con toni bipartisan. Barack Obama ha lasciato intendere che, in caso di elezione, potrebbe mantenere il ministro bushiano Harry Paulson al suo posto. John McCain, invece, ha detto che se diventasse presidente metterebbe il democratico Andrew Cuomo, attorney general di New York, figlio dell’ex governatore Mario ed ex ministro allo Sviluppo urbano di Bill Clinton, alla Sec, l’autorità di controllo della Borsa (scatenando però l’irritazione dei blog di destra convinti da un recente articolo del radicale Village Voice che siano state proprio le politiche sugli alloggi di Cuomo a dare il via alla crisi attuale dei mutui).
23 Settembre 2008