New York. Le quattrocentonovanta pagine del nuovo libro di Bob Woodward, il leggendario cronista del caso Watergate e vincitore di due premi Pulitzer, sono un documento straordinario per conoscere, capire e valutare le scelte di George W. Bush sull’Iraq, ma anche il carattere e l’eredità della sua presidenza. “The war within – A secret White House history 2006-2008”, uscito questo lunedì negli Stati Uniti, è il quarto libro di Woodward sulla presidenza Bush. Il primo era molto favorevole, il secondo così così, il terzo molto contrario, in sintonia con l’andamento dell’opinione pubblica americana. In questo quarto e ultimo libro su Bush, Woodward racconta la guerra intestina combattuta negli ultimi due anni dentro l’Amministrazione repubblicana e nella capitale politica del paese.
Il succo è questo: per vincere la guerra in Iraq, Bush si è affidato alle strategie militari dei suoi generali e del suo segretario alla Difesa, Donald Rumsfeld, impostate sull’idea di addestrare velocemente le forze di sicurezza irachene in modo da affidare ai locali la gestione del territorio e ridurre di conseguenza il contingente americano. Ma quando, nel 2006, la situazione in Iraq è peggiorata sensibilmente e i militari e Rumsfeld continuavano a insistere su una strategia che non dava i risultati sperati, Bush ha avviato dietro le loro spalle una revisione strategica orchestrata dal suo consigliere per la Sicurezza nazionale, Stephen Hadley, che ha portato alla sostituzione del capo del Pentagono, del capo di stato maggiore, dei generali impegnati sul campo e dei piani per pacificare l’Iraq. Così è nato il famoso “surge”, ovvero l’invio di nuove truppe e con nuovi compiti, elaborato dal generale in pensione e consigliere di Rumsfeld, Jack Keane, e dal giovane studioso dell’American Enterprise Institute, Frederick Kagan, sulla base dei loro studi e dell’esperienza irachena di un colonnello, H.R. McMaster, che nel marzo del 2006 aveva agito di testa sua ed era riuscito a pacificare la città di Tall Afar puntando sulla sicurezza dei cittadini, anziché sull’addestramento degli iracheni.
Due funzionari della Casa Bianca, Meghan O’Sullivan e Jack D. Crouch, sono stati i primi a cercare una strada alternativa, quella del “surge”, in un ambientino che – all’interno della stessa Amministrazione, per non parlare di cosa si diceva fuori – considerava l’idea quantomeno azzardata. Donald Rumsfeld era contrario, così come Condoleezza Rice, i vertici militari, quelli diplomatici e l’establishment di sicurezza nazionale di Washington e, per motivi diversi, il mondo politico. Dick Cheney, sostiene Woodward, non ha avuto nessun ruolo in questa vicenda del “surge” (secondo Woodward, il peso di Cheney nell’Amministrazione è sovrastimato). Il vicepresidente si è limitato a esprimere il suo disaccordo sulla sostituzione di Rumsfeld e a sostenere l’idea del “surge” decisa dalla Casa Bianca.
La svolta del “surge”
Bush s’è fidato del suo istinto e la sensazione è che Woodward abbia cominciato a scrivere un libro che avrebbe dovuto demolire definitivamente la sua presidenza, raccontando la solitudine di un comandante in capo che, in perenne stato di negazione della realtà (titolo del suo precedente libro su Bush), è arrivato a contraddire i suoi stessi generali e i suoi stessi collaboratori per tentare di raddoppiare la posta – inviando altri soldati in Iraq, anziché ritirarsi – e quindi condurre l’America al più grande disastro degli ultimi quarant’anni. E’ successo, invece, che la nuova strategia bushiana ha funzionato benissimo, consentendo agli Stati Uniti di ribaltare una situazione sul campo molto critica e quindi di pacificare e stabilizzare l’Iraq. Lo ha riconosciuto anche Barack Obama, confermando un paio di giorni fa, che il “surge ha funzionato al di là delle più rosee aspettative”. Obama, racconta Woodward, non solo aveva votato contro il finanziamento della nuova strategia bushiana, ma aveva anche detto che non credeva potesse funzionare, anzi era certo che avrebbe peggiorato la situazione. Quella era la posizione comune a Washington, a cominciare dalle indicazioni del rapporto della Commissione indipendente Baker-Hamilton che alla Casa Bianca suggeriva un cauto ritiro dall’Iraq, anche se almeno due membri di quel gruppo, Robert Gates, e il democratico Charles Robb, invitavano a considerare l’ipotesi contraria, ovvero quella di mandare più truppe. Soltanto due senatori, John McCain e Joe Lieberman, hanno sostenuto la nuova strategia lanciata da Bush tra la fine del 2006 e l’inizio del 2007 e affidata al generale David Petraeus (un protetto di Keane) e dal neonominato al Pentagono, Robert Gates.
(segue dalla prima pagina) Come già nei suoi precedenti libri, in “The war within” Bob Woodward usa in modo superbo i suoi consolidati rapporti nel mondo di Washington che conta e l’aperta disponibilità a collaborare delle fonti ufficiali, compreso George W. Bush e la sua squadra di sicurezza nazionale. Woodward ricostruisce come in un romanzo, con tanto di dialoghi virgolettati a cui però non ha assistito, la storia segreta e avvincente della lotta di potere che ha portato alla decisione di cambiare strategia in Iraq.
Il filo narrativo scelto da Woodward svela la natura della presidenza Bush. Il presidente repubblicano, il primo della storia degli Stati Uniti ad avere un master in business admnistration, ha impostato la complessa questione della gestione della guerra in Iraq, spiega Woodward, tenendo bene in mente la lezione negativa del Vietnam. In quell’occasione, ha detto lo stesso Bush a Woodward, la Casa Bianca e il segretario alla Difesa Robert McNamara hanno cercato di gestire loro stessi la guerra, invece che affidarsi ai generali. E il risultato è stata la disfatta.
L’impostazione di Bush, peraltro non solo sulle questioni militari, ma a maggior ragione in tema di guerra, è quella di indicare un obiettivo strategico e poi di dare fiducia alle tattiche dei generali che lui stesso ha scelto per guidare l’apparato militare americano. A un certo punto, però, ha cambiato linea e ha scelto di non ascoltare più i suoi generali, visto che continuavano a proporre la stessa strategia che non funzionava e malgrado a loro ripetesse che potevano contare sulla sua fiducia.
Alla fine, Bush ha avuto ragione e quasi tutta Washington torto, al punto che la cronaca di un annunciato fallimento epocale della sua presidenza si è involontariamente trasformato in un elogio della leadership bushiana e della sua capacità di prendere decisioni giuste, anche se scomode e impopolari.
A Woodward non è rimasto che contestare a Bush alcuni aspetti importanti, ma minori rispetto alla decisione che ha cambiato l’esito della guerra irachena. Intanto la delega troppo ampia affidata al suo consigliere per la Sicurezza nazionale, Stephen Hadley, in questo delicato processo di revisione della strategia irachena, cioè l’accusa di non essersi occupato direttamente e personalmente della questione più importante della sua presidenza. Questo, però, è esattamente il metodo business oriented di Bush e in questo caso, grazie ai modi felpati di Hadley e dei suoi assistenti Crouch e O’Sullivan, è andata bene. Woodward, però, contesta alla Casa Bianca di non aver accelerato la procedura di revisione della strategia irachena per ubbidire a logiche partitiche. Alla fine del 2006 erano in programma le elezioni di metà mandato e gli uomini di Bush si sono convinti che se all’esterno si fosse saputo che la Casa Bianca stava considerando di cambiare rotta in Iraq, avrebbe implicitamente ammesso lo stato fallimentare della guerra in Iraq, garantendo ai democratici la conquista del Congresso. Bush e i suoi, racconta Woodward, sapevano che a Baghdad la situazione era pessima, ma al pubblico continuavano a dire che andava tutto secondo programma e che bisognava soltanto essere pazienti. A chi gli chiedeva di cambiare rotta – cioè di ritirarsi, ma c’era anche quei pochi analisti neoconservatori che gli chiedevano di mandare più truppe – Bush rispondeva che aveva piena fiducia nei suoi generali, e in particolare del capo della forza multinazionale in Iraq, George Casey, e che loro non facevano nessuna richiesta di questo tipo. Casey è il personaggio che, insieme con Rumsfeld e il generale John Abizaid, esce peggio dal libro di Woodward, malgrado l’autore sia chiaramente dalla sua parte. Casey è il più convinto sostenitore della strategia volta a tenere gli americani lontani dalle strade, ad addestrare gli iracheni e a ritirarsi il più presto possibile.
Il rapporto del dipartimento di stato
Accanto alla revisione avviata dalla Casa Bianca, e alle iniziative esterne come quella della Commissione Baker e dell’American Enterprise Institute, a metà del 2006 anche altri settori dell’Amministrazione hanno cominciato a ripensare la strategia irachena. Woodward racconta di un rapporto interno al dipartimento di stato, affidato dalla Rice a Philip Zelikov, che portava alle stesse conclusioni della Commissione Baker, ma anche di un comitato segreto del Pentagono creato ad hoc dal capo del Joint chief of staff Peter Pace, su suggerimento dell’ideatore del “surge”, Jack Keane, che ha radunato un gruppo di colonnelli, compresi Petraeus e il McMaster della battaglia di Tall Afar, noti per le loro capacità intellettuali e strategiche. Il gruppo di colonnelli è arrivato alle stesse conclusioni della revisione avviata da Hadley, rivelatesi poi utili una volta che Bush ha deciso di rivoluzionare il Pentagono e la gestione della guerra irachena.
Christian Rocca