Camillo di Christian RoccaLe mille luci di Manhattan

New York. La mille luci di Manhattan non si spengono, forse si attenuano leggermente, a meno di ulteriori e più catastrofici fallimenti di altre istituzioni finanziarie, a cominciare dal gigante delle assicurazioni AIG. New York ha già vissuto momenti difficili come questi, ma ne è sempre uscita più luminosa di prima: prima lo scoppio della bolla di Internet del 1999, poi la recessione successiva all’11 settembre. In realtà, la crisi attuale è cominciata alcuni mesi fa e il leggendario stile di vita “manhattanite” non ne ha risentito. Dall’inizio dell’anno, prima ancora del fallimento di Lehman Brothers e della svendita di Merrill Lynch, Wall Street aveva già perso 25.000 posti di lavoro, a cui ora se ne aggiungeranno diecimila, forse 40.000. Le ripercussioni sulla città si sentiranno – le borse scendono, i pacchetti azionari perdono valore – ma gli analisti sono meno catastrofisti rispetto ai titoli dei giornali. Chi ha perso il lavoro ha una media di guadagno annua di 280.000 dollari, cinque volte superiore a quella degli altri newyorchesi. I licenziati perderanno gli stratosferici bonus di fine anno e, per pagare o liberarsi dei mutui, probabilmente saranno costretti a mettere sul mercato la casa di vacanza agli Hamptons, a vendere il mega loft a Soho, a liberarsi delle Aston Martin e delle Ferrari, a ridurre il numero di cene nei ristoranti di lusso e a non comprare opere d’arte contemporanea, ma prima o poi i manager e i trader di Lehman e Merrill Lynch saranno riassorbiti dalle altre banche già pronte ad appropriarsi del business degli ex concorrenti. I posti di lavori di Wall Street rappresentano il cinque per cento degli impieghi newyorchesi ma valgono un quarto degli stipendi totali – 60 miliardi di dollari nel 2006, il dieci per cento degli introiti fiscali della città e il venti per cento dello Stato di New York. Ogni posto di lavoro a Wall Street ne crea tre fuori Manhattan, dove la crisi si sentirà ancora di più.
Il sindaco Mike Bloomberg ha detto che la città è solida, perché la sua economia non dipende esclusivamente da Wall Street ma si basa anche su cinema, moda, turismo, sanità, istruzione e arte. Bloomberg già da un anno si prepara al crollo delle entrate fiscali e per tempo ha bloccato le assunzioni comunali e tagliato il bilancio. Ora, per far quadrare i conti, è possibile che aumenti le tasse immobiliari, com’era stato fatto dopo l’11 settembre (anche se un anno erano state in parte ridotte). E’ possibile che ne risentiranno le grandi istituzioni culturali, vanto della città, a cui le banche avevano promesso svariati milioni di dollari (sei per il Lincoln Center, uno per l’Apollo Theater). Soffriranno anche i politici, specie quelli democratici: quest’anno i dipendenti della Lehman hanno versato quasi un milione e mezzo di dollari ai candidati (800.000 dollari divisi a metà tra Hillary e Obama, 145.000 per McCain). Altri di meno: un chirurgo estetico di Park Avenue, Alan Matarasso, prevede un aumento di lifting a viso, seno e addome. “I dirigenti di mezza età – ha detto al Washington Post – avranno bisogno di mostrarsi ben tirati per rimettersi sul mercato”.

Arte e petrolio per salvare i capitali
La prima preoccupazione resta il mercato immobiliare, la cui crisi nazionale si è avvertita in modo più superficiale rispetto al resto d’America, anche grazie ai compratori stranieri attratti dal dollaro basso e dall’idea di un appartamento nella città più importante del mondo. Robert Cabrera, senior vicepresidente della Halstead Property, dice al Foglio che “nessuno può prevedere che cosa succederà”, ma crede “che tra un anno, un anno e mezzo, potremmo guardare al quarto trimestre del 2008 come a quello in cui ci sono state le migliori opportunità di acquisto, esattamente com’era successo nello stesso periodo post 11 settembre”. La direttrice delle Gallerie Gagosian, Valentina Castellani, non crede che la crisi colpirà il lussuoso mercato dell’arte contemporanea, anche perché “ora ci sono nuovi player: russi, arabi, cinesi, le cui fortune sono legate al petrolio, non alla finanza”. Una tesi confermata dal successo dell’asta londinese di Damien Hirst (127 milioni di dollari) e da altri galleristi come Jeffrey Deitch. Castellani immagina “una flessione del mercato medio, quello delle opere che valgono 300 o 400 mila dollari”, in genere acquistate proprio dai manager di Wall Street, ma ricorda che “oggi comprare opere d’arte è uno degli investimenti più redditizi” e che “i collezionisti non vogliono vendere, perché non saprebbero dove mettere i soldi”.

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