New York. A ogni stagione elettorale, la politica americana si aspetta sempre una fantomatica “october surprise” che improvvisamente riesca a cambiare la dinamica della campagna presidenziale e a influire sulle elezioni di novembre. Questa volta, con il crollo di alcune delle più solide e gloriose istituzioni finanziarie di Wall Street, la sorpresa è arrivata sul serio, ma già a settembre. La partita ora è cambiata, anche se ancora non si capisce in che modo influenzerà il risultato elettorale. Barack Obama è tornato in leggero vantaggio ma c’è chi sospetta che una crisi così grave potrebbe aiutare il politico più esperto, cioè John McCain. I due candidati alla Casa Bianca sono andati in confusione e, dopo una serie di tentennamenti e di giri a vuoto, soltanto nelle ultime ore hanno rielaborato il messaggio delle loro campagne, entrambi con toni più populisti del solito. In realtà, i due non hanno ancora fatto in pieno i conti con gli effetti che la crisi e l’intervento pubblico avranno sulle loro proposte sociali ed economiche. Quasi tutte le promesse elettorali – sanità, incentivi, riduzione tasse – non potranno essere rispettate a causa delle centinaia di miliardi che le casse federali saranno costrette a mettere sul mercato per tamponare le falle delle banche e delle assicurazioni a corto di liquidi. Tesoro e Federal Reserve si sono già impegnate per quasi 600 miliardi di dollari, ma il segretario Henry Paulson ieri mattina ha detto che ne serviranno ancora e che il piano per ridare stabilità ai mercati prevede di autorizzare il governo ad acquistare dalle banche, a prezzo scontato, quei mutui che hanno dato il via alla crisi. C’è chi dice che in un paio d’anni l’investimento federale potrebbe addirittura produrre utili e ieri George W. Bush ha spiegato che prima o poi questi dollari sottratti ai contribuenti saranno ripagati. Oggi, però, si parla soltanto di lacrime, sangue, nuove tasse e si teme che l’operazione possa essere gestita male.
Niente Keynes, siamo americani
McCain, Obama e i loro partiti sostengono più o meno all’unanimità il piano di salvataggio di Wall Street approntato in fretta e furia, e dopo aver cercato di risolvere la crisi caso per caso, dall’Amministrazione Bush, dal Tesoro, dalla Federal Reserve e anche dalla Sec (l’autorità di controllo della Borsa), in pieno accordo con il Congresso a guida democratica. Niente polemica partigiana, malgrado le continue scaramucce elettorali e le accuse reciproche tra i candidati, ma la cosa imprevedibile a un occhio europeo è che è stato praticamente sospeso anche il dibattito intellettuale intorno alle soluzioni decise dal governo e appoggiate da entrambi i partiti. Il dibattito economico americano non è mai tra liberisti e statalisti, o tra seguaci di Milton Friedman e neo-keynesiani. A destra come a sinistra sono più o meno tutti liberisti. E’ liberista la corrente liberal del Partito democratico, peraltro nata negli anni Trenta con Franklin Delano Roosevelt con l’intento di evitare che le diseguaglianze provocate dal capitalismo potessero scatenare una rivolta socialista. Con Clinton alla Casa Bianca e Bob Rubin e Lawrence Summers alla guida dell’economia, i democratici sono diventati il partito di Wall Street, della riforma del welfare state e del pareggio di bilancio. E lo sono ancora ancora oggi, con Rubin e Summers in prima fila dietro Obama e con i nuovi Chicago boys del senatore dell’Illinois cresciuti nell’ambiente accademico dell’Università dove insegnava Milton Friedman.
E’ liberista, ovviamente, la destra repubblicana, anche se l’Amministrazione Bush si è poi rivelata la più interventista dai tempi di Lyndon Johnson, con la maggiore espansione del governo degli ultimi quarant’anni, l’esplosione del deficit, le tariffe sull’acciaio e gli aiuti agli agricoltori. Tra i due partiti ci sono differenze sui trattati di libero scambio, fiore all’occhiello della clintonomic negli anni Novanta, ma il protezionismo obamiano delle primarie si è affievolito ed è quasi scomparso una volta assicuratasi la candidatura alla Casa Bianca.
Le scelte “invitabili” della Casa Bianca
Di fronte alla crisi attuale, più che lo scontro tra soluzioni liberiste e ricette pubbliche prevale il pragmatismo, la vera ideologia americana. L’Amministrazione Bush, teoricamente contraria a regolamentare i mercati finanziari più di quanto non lo siano già, nel giro di poche settimane le ha provate tutte – salvando i giganti dei mutui, lasciando fallire Lehman Brothers, favorendo la soluzione privatistica della crisi di liquidità di Merrill Lynch, comprandosi le assicurazioni AIG, mettendo a disposizione denaro contante per tutte le altre aziende finanziarie in difficoltà. Un economista liberal e decisamente anti Bush come Paul Krugman, sul New York Times, definisce “inevitabile” la soluzione adottata dall’Amministrazione e si limita a mettere in guardia da eventuali errori di gestione. Il ben più liberista Economist ha la stessa identica posizione, confermando che nell’emergenza vale il pragmatismo, non l’ideologia, ma ricordando anche che l’attuale sistema “ha creato salutare crescita economica e bassa inflazione per una generazione e che ci vorrà davvero una recessione molto pesante per spazzare via questi progressi”.
Le grandi istituzioni liberiste del paese, i centri studi e le pagine degli editoriali del Wall Street Journal non hanno aperto un dibattito ideologico sull’intervento pubblico deciso in questi giorni per salvare il sistema finanziario. I siti della Heritage Foundation e del Cato Institute, il think tank della rivoluzione economica reaganiana e quello dei liberisti più estremi, quasi non fanno cenno alla crisi. Un importante dirigente di un centro studi conservatore, ha scritto Marc Ambinder nel suo blog su Atlantic.com, ha spiegato che gli esperti del think tank sono in uno stretto silenzio stampa, al punto che i dirigenti hanno anche invitato i propri analisti a non intervenire nelle trasmissioni televisive e a non scrivere sui giornali. Anche l’American Enterprise Institute, centro nevralgico dell’Amministrazione Bush, sta sulle generali. La sensazione è che tutti, anche i più liberisti, siano convinti della necessità di intervenire per salvare il sistema, anche se in linea teorica la presenza di una mano pubblica contraddice la loro filosofia economica. Le pagine degli editoriali del New York Sun, probabilmente le più free-market del paese, dopo aver criticato Bush e il Tesoro per il salvataggio di Fannie Mae e Freddie Mac e poi applaudito la scelta contraria di lasciar fare al mercato con Lehman e Merrill Lynch, quasi non hanno saputo commentare il successivo acquisto federale di AIG e si sono affidati a un breve e ingenuo editoriale ispirato all’antico adagio popolare “l’importante è la salute” con cui hanno spiegato come, in fondo, “i soldi non sono tutto”, perché nella vita di una persona ci sono cose più decisive, come “la famiglia” e, appunto, “la salute”.
Le pagine degli editoriali del Wall Street Journal, tradizionalmente il cuore liberista degli Stati Uniti, sono state invece le prime a chiedere di istituire il Fondo federale con l’incarico temporaneo di acquistare a un prezzo giusto e trasparente i mutui inesigibili, poi effettivamente proposto ieri dall’Amministrazione dopo che era stato sostenuto anche da altri importanti economisti e dai leader democratici al Congresso. Una soluzione statalista, ma pragmatica, nata tra i più influenti liberisti degli Stati Uniti, subito sostenuta dal meno interventista dei due candidati presidenziali John McCain, dall’ex capo della Fed ai tempi di Ronald Reagan Paul Volcker, e dal gotha degli advisor clintoniani oggi al servizio di Obama.
Nell’antro dei critici c’è soltanto Reich
Chi è contrario, paradossalmente, è Bob Reich, ex ministro del Lavoro di Clinton nonché l’economista più battagliero nel denunciare gli eccessi del supercapitalismo. Sul suo blog, Reich ha scritto che l’idea di ripetere la soluzione adottata alla fine degli anni Ottanta, durante la crisi dei depositi e dei prestiti, è probabile che non risolva il problema attuale perché non si sa ancora quanto sia ampio il debito e non ristabilisce la fiducia nel credito: “Il Congresso, la Fed e l’Amministrazione non dovrebbero fornire più nessun aiuto a Wall Street”, ha scritto. Un’idea migliore, secondo Reich, sarebbe dichiarare la completa bancarotta del sistema e di avviare un gigantesco riordino di Wall Street con nuove regole più trasparenti, capaci di far tornare la fiducia. Gli aiuti, invece, dovrebbero essere rivolti alla gente che in questo momento ha un vero bisogno di un paracadute sociale, ai lavoratori che hanno perso il posto o la pensione o l’assicurazione sanitaria, e ai proprietari di case che hanno perso l’appartamento. Nel lungo termine, ma solo una volta che sarà superata la crisi, il dibattito ideologico tornerà a farsi sentire più deciso. Il punto centrale resta la regolamentazione del sistema finanziario. Le prime avvisaglie ci sono già, in particolar modo con le accuse al Congresso repubblicano e alla presidenza Clinton di aver allentato alla fine degli anni Novanta le regole sulle banche di investimento. Paul Krugman è uno di questi, ma la libertaria Megan McArdle, ex giornalista dell’Economist ora blogger su Atlantic.com, da giorni spiega che imputare la crisi attuale alle leggi di quell’epoca, e magari estendere le colpe alla mancanza di controllo esercitata dell’Amministrazione Bush, non ha alcun senso. Non sta in piedi, ha scritto McArdle, nemmeno sostenere che la causa del crac finanziario sia un eccesso di regolamentazione, come ha suggerito qualche analista conservatore. David Brooks, sul New York Times, non crede che stiamo davvero per entrare in una nuova era politica, ricca di regole finanziarie globali, perché il problema non è nato a causa di un gruppo di liberisti che si sono addormentati al volante: “La crisi finanziaria attuale è centrata intorno a banche di investimento altamente regolate, mentre i poco controllati hedge fund non stanno andando così male”. Fannie Mae e Freddie Mac, ha scritto Jonathan Kay sul Financial Times, “probabilmente sono tra le istituzioni finanziarie più pesantemente controllate del mondo”.
Glenn Hubbard, ex advisor economico della Casa Bianca e analista dell’American Enterprise, ha riconosciuto sul Washington Post di ieri che nel breve l’azione del Tesoro era necessaria, ma si è anche preoccupato che i candidati alla presidenza non abbiano ancora elaborato un piano di lungo termine per riformare il sistema finanziario. “Abbiamo bisogno di regole più intelligenti”, ha detto, rifiutando l’idea che siano necessari maggiori controlli statali e basta.