St. Paul (Minnesota). John McCain ha chiuso la stagione delle convention di partito con un discorso di accettazione della sua candidatura alla Casa Bianca che non è piaciuto per niente a editorialisti e commentatori americani, ma che dopo la sbornia pop degli interventi di Sarah Palin e Rudy Giuliani era stato congegnato esattamente per abbassare i toni, non attaccare l’avversario, ricordare la sua eroica biografia militare e politica e sottolineare come grazie alla sua tenacia, al suo carattere indipendente, al suo patriottismo e alla sua capacità di mettere insieme repubblicani e democratici, alle elezioni del 4 novembre sarà lui, con la giovane governatrice Palin, il riformatore più efficace e credibile.
Con un tono da solido e affidabile padre della patria, che ad alcuni suoi critici è sembrato più da fine carriera che da avvio di una nuova presidenza, McCain è entrato nel dettaglio delle sue proposte di politica interna, quasi tutte in linea con la tradizionale filosofia conservatrice, ma contemporaneamente ha provato a ribadire di essere ancora il ribelle numero uno, l’anticonformista che sa combattere contro il suo stesso partito e comportarsi da statista. McCain si è definito come l’uomo che può dare una ripulita a Washington, in grado di prendere decisioni sagge di politica estera, come quella che ha cambiato la rotta in Iraq e che ieri, per la prima volta, Obama ha ammesso essere stata “un successo oltre le più rosee aspettative”.
Mancano 59 giorni al giorno delle elezioni e ora si comincia davvero a fare sul serio. Soltanto adesso, per esempio, i sondaggi nazionali e statali cominciano a essere un termometro realistico. Il 26 settembre comincia la stagione dei dibattiti, tre presidenziali, uno tra i vice. La gara è aperta, con Obama in vantaggio. Qualsiasi repubblicano diverso da McCain non avrebbe avuto alcuna chance contro la novità obamiana e sotto il peso di otto anni di Bush, due lunghe guerre in corso e una crisi economica più percepita che reale, ma che si fa sentire ogni volta che si fa il pieno di benzina, si paga il mutuo e si perde il lavoro (nel 2008, 605 mila in meno).
Le due convention hanno confermato che la partita si gioca sul terreno preferito da Barack Obama, sul “change”, sul cambiamento. Il suo schema è semplice: McCain è repubblicano e la sua candidatura è un terzo mandato di George W. Bush. McCain si è abilmente messo sulla stessa scia, forte del suo record da riformatore e della scelta di Sarah Palin, la persona più antropologicamente distante dal potere di Washington. McCain aggiunge la carta dell’esperienza, sebbene non possa più usarla esplicitamente avendo scelto una vice ancora più giovane di Obama.
I due temi su cui è Obama a inseguire sono l’energia e l’Iraq. “Drill, baby, drill” è stato il coro più ascoltato a St.Paul, a dimostrazione che oggi per i repubblicani le cose più eccitanti non sono tasse, sicurezza o temi etici, ma il “drilling”, la trivellazione alla ricerca di petrolio e gas al largo delle coste e in Alaska. Obama è contrario (anche all’energia nucleare), ma i democratici vacillano. Poi c’è l’Iraq. Obama può vantare il suo no iniziale, ma se negli ultimi due anni l’America avesse seguito la sua linea, anziché quella McCain, la guerra sarebbe stata persa.
6 Settembre 2008