Camillo di Christian RoccaThat's it/18

New York. “Petrossian Boutique”, la caffetteria del più formale e famoso omonimo ristorante di caviale e foie gras, si trova a un isolato dalla Carnegie Hall, sulla settima avenue tra la 57esima e la 58esima strada. Il pensatore newyorchese Franco Zerlenga, italiano di Torre del Greco, ma sbarcato in America nel 1968, ordina un “Petrossian smoked salmon bagel” con formaggio cremoso, cipolla, pomodoro e capperi. Più due cappuccini ad aprire e chiudere il pasto in modo poco napoletano. Zerlenga è un liberal, un elettore del Partito democratico, un sostenitore e piccolo finanziatore di Barack Obama fin dal primo momento. Tranne i rari momenti in cui pensa al suo prossimo viaggio nella giungla del Camerun con dei monaci benedettini tedeschi e quelli in cui spiega con precisione come comportarsi di fronte a un leopardo (mai piegarsi, stare immobili e, soprattutto, coprirsi a mo’ di tenda con un asciugamano, sempre che se ne abbia uno a disposizione), Zerlenga si dispera per la “strategia perdente” della campagna Obama, a cominciare dalla scelta di Joe Biden come vicepresidente: “Noi democratici siamo come Charlie Brown con Lucy – dice Zerlenga azzardando un paragone politico con le strisce di Snoopy – abbiamo la palla, siamo contenti di avercela e finalmente di poterci giocare, poi arriva Lucy, la ‘mean girl’ che somiglia tanto ai repubblicani di Karl Rove, e ce la toglie”. Zerlenga non si avventura in previsioni sul risultato finale e ripete come un mantra “la partita si deve ancora giocare, fatemela vedere, that’s it”.
L’argomento del giorno è il libro di Bob Woodward su Bush, i militari e la guerra in Iraq. Zerlenga arriva preparato, con un tomo dal titolo “The Utility of Force”, un trattato sull’arte della guerra nel mondo moderno scritto dal generale Rupert Smith e l’indicazione di una biografia su David Petraeus, “Tell Me How This Ends” di Linda  Robinson. La tesi di Zerlenga, senza ipocrisia e partigianeria, è che Donald Rumsfeld aveva capito tutto, visto che aveva provato a modernizzare l’esercito americano e la sua burocratica resistenza alle novità. La cosa che in Europa non si capisce, spiega Zerlenga, è la natura democratica dell’esercito americano e il fatto che i generali solitamente sono quelli che non vogliono fare la guerra, come dimostra la resistenza di Colin Powell all’invasione irachena. “D’altro canto, però, non possono disobbedire agli ordini del presidente perché il presidente è eletto dal popolo e se disobbediscono a lui, disobbediscono a noi”. Il comandante in capo, continua Zerlenga, è eletto e decide come condurre una guerra, ma non è onnipotente, perché le sue nomine ai vertici dell’apparato militare sono approvate dal Senato e, se qualcuno se lo fosse dimenticato, “la nomina di Petraeus è stata approvata con 100 voti su 100, compreso quello di Obama”. L’esercito americano è sotto la guida del suo comandante in capo e il controllo degli elettori, dice Zerlenga che è un assiduo telespettatore delle audizioni della commissione Forze armate del Senato: “L’idea suggerita da Woodward nel suo libro, quella secondo cui Bush avrebbe aggirato i vertici militari, dando ascolto a un ex militare in pensione, il generale Jack Keane, sono assurde e ridicole – dice Zerlenga – perché le proposte di Keane di mandare più soldati in Iraq e con una nuova strategia erano pubbliche e le ha presentate agli americani in un’audizione al Senato”. Secondo Zerlenga, “non c’è stato nessun complotto di Bush contro i suoi generali e del resto anche Kennedy li aveva contro e anche Lyndon Johnson è stato costretto più volte a cambiarli”. (chr.ro)

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