New York. L’opinionista del New York Times, Paul Krugman, 55 anni, ebreo di Long Island, ha vinto il premio Nobel per l’Economia per la sua analisi degli andamenti commerciali e del posizionamento dell’attività economica. “Stamattina mi è successa una cosa divertente”, ha scritto sul suo blog ospitato dal Times. Liberal di tendenza socialdemocratica, feroce avversario delle politiche economiche di George W. Bush, al punto da essere definito dall’Economist “un Michael Moore, però pensante”, Krugman è il più grande divulgatore di complicate teorie economiche e il più convinto seguace della dottrina interventista di John Maynard Keynes.
Professore a Princeton, con un passato a Yale, Mit e Stanford, Krugman ha scritto 26 libri (l’ultimo è “La coscienza di un liberal”), 40 articoli accademici e quasi un migliaio di column sul New York Times, di cui è collaboratore fisso dal 1999. Krugman sostiene politiche redistributive della ricchezza ed è ideologicamente favorevole all’intervento pubblico nell’economia, come ai tempi del New Deal di Franklin Delano Roosevelt. Malgrado ciò è stato membro del consiglio economico della Casa Bianca di Ronald Reagan, ma non è entrato nell’Amministrazione Clinton, nonostante Bill gli avesse promesso un ruolo importante. E’ stata la sua fortuna.
Krugman è diventato il più influente osservatore economico d’America, la coscienza critica della sinistra, “una voce solitaria di verità in un mare di corruzione” (parole sue, anche se non tengono conto della sua consulenza al fallimentare gigante energetico Enron e al premier antisemita della Malesia). Partigiano, ma sempre chiarissimo nella sua esposizione, Krugman è disprezzato dai conservatori, invidiato dai colleghi liberal per il suo status da rock star e di tanto in tanto anche dal garante dei lettori del suo stesso giornale, perché “ha l’inquietante abitudine di rimodellare, di tagliare a fette e di citare in modo selettivo i numeri” in modo da accusare sempre e comunque i repubblicani e George W. Bush.
Krugman prevede da anni catastrofi economiche e apocalissi finanziarie. E alla fine, dopo anni di previsioni sbagliate e grandi ricchezze create, i fatti di queste settimane cominciano a dargli ragione. Krugman si è schierato subito a favore del piano Paulson di salvataggio di Wall Street, anche se con qualche perplessità, perché naturalmente non si fidava dell’Amministrazione repubblicana.
(segue dalla prima pagina) Paul Krugman ora è favorevole al cosiddetto “piano B” – l’acquisto di quote delle banche in difficoltà – sostenuto dal premier britannico Gordon Brown e anche dalla Casa Bianca. Il neo Nobel non fa mistero di preferire Barack Obama a John McCain, ma durante le primarie si è scatenato in una furibonda guerra contro Obama per il suo piano di riforma sanitaria che, a differenza di quelli proposti da Hillary Clinton e John Edwards, non imponeva l’assicurazione sanitaria obbligatoria per tutti gli americani. L’economista non condivide nemmeno le preoccupazioni obamiane sulla solvibilità del sistema pensionistico, ma in generale a Krugman non va giù l’approccio metodologico di Obama, ovvero i suoi continui richiami a soluzioni bipartisan e condivise con i repubblicani, perché li considera cedimenti al fronte conservatore. Non è un caso che sia stato definito il commentatore più di parte d’America, dietro solo a una testa matta come Ann Coulter. L’ossessione di Krugman sono i tagli fiscali che, secondo lui, avrebbero condotto al tracollo, quando invece hanno fatto crescere l’economia e portato più soldi nelle casse federali. Krugman aveva previsto un crollo dei posti di lavoro e gli ultimi otto mesi cominciano lentamente a dargli ragione, anche se in realtà il saldo è in attivo di sei milioni dal dopo 11 settembre a oggi. Krugman aveva previsto la recessione nel 2003, nel 2004, nel 2005 e così via. Ma l’economia americana è cresciuta a un ritmo superiore a quello dei paesi del G7. (chr.ro)
14 Ottobre 2008