New York. “E.A.T.” è il deli ebraico di Eli Zabar nell’Upper East Side di Manhattan, su Madison Avenue, tra l’ottantesima e l’ottantunesima strada. Franco Zerlenga, pensatore newyorchese ed elettore di Barack Obama, è stranamente agitato. Non vuole credere ai sondaggi che danno ormai per scontata la vittoria del suo candidato, a cui ieri ha versato altri cento dollari e per il quale ha trascorso il weekend a fare telefonate a elettori indecisi di origine italo-americana. Non vuole nemmeno sentire parlare di nuova Amministrazione Obama e prova a spiegare perché, anche se prima ordina una zuppa di pollo e verdure con Matzoh balls, qualunque cosa esse siano, poi un sandwich all’insalata di uova, con contorno di patate lesse, cipolle e maionese di aneto. Infine mezza porzione di cheese cake e il solito cappuccino decaffeinato.
Zerlenga è preoccupato da quel residuo di razzismo che sente presente nella società americana, anche se non sa ancora valutare quanto grande sia. Ci tiene a precisare che non parla di “razzismo” nello stesso modo in cui se ne parla in Italia. Quella cosa lì non c’è più, come ha spiegato più volte lo stesso Zerlenga in queste interviste e come dimostrano il successo della candidatura di Obama e la presenza in un’Amministrazione repubblicana di Condoleezza Rice e, prima, anche di Colin Powell. “E’ qualcosa di più profondo, più sofisticato, quasi impalpabile – dice Zerlenga – ricordiamoci che c’è stata una guerra e fino agli anni Sessanta c’erano cinema, negozi e perfino fontane separate per colored e not colored”. Questa sottile linea razzista non è una cosa di destra o di sinistra, aggiunge l’ex professore di Storia dell’islam alla New York University, “sotto questo punto di vista il dieci per cento del Partito democratico è razzista”, ma Zerlenga è preoccupato per alcune parole in codice che gli sembra stia utilizzando John McCain: “Quando McCain dice che Obama ‘doesn’t understand”, non capisce, quando lo definisce ‘that one’, quello là, quando ha detto che all’ultimo dibattito gli avrebbe ‘whip you-know-what’, frustato sapete-che-cosa, non fa altro che solleticare il sentimento razzista di una parte della popolazione americana, utilizzando parole ed espressioni liquidatorie come quelle che un tempo venivano rivolte ai ‘negro-boy’, ai ragazzotti negri”. Secondo Zerlenga, McCain non è razzista, ma fa parte di quella generazione di americani che ha convissuto buona parte della propria vita con la segregazione: “McCain è uno che il 2 novembre del 1983, al Congresso, ha votato contro la proposta di Ronald Reagan di istituire una festa nazionale in onore di Martin Luther King” (in realtà lo ha fatto da federalista, contrario all’istituzione di festività federali e in seguito ha chiesto scusa). Allora, continua il pensatore newyorchese, “McCain disse ‘I don’t know the issue’, cioè che non era ferrato su Martin Luther King”. Con questo, spiega Zerlenga, ha mostrato che per una parte di americani di quella generazione, specie quelli del west, la questione dei diritti civili e della segregazione non è mai stata un problema importante e decisivo.
Lo scontro sotterraneo
E’ la stessa reazione, dice Zerlenga, di quei suoi amici, militanti democratici e lontani mille miglia da sentimenti razzisti, che voteranno Obama, gli inviano soldi, fanno campagna per lui, ma aggiungono che forse “non siamo pronti per una coppia nera alla Casa Bianca”. Zerlenga promette di studiare il fenomeno, ma è rimasto colpito da un suo recente viaggio a Nashville, in Tennessee, in occasione del secondo dibattito presidenziale tra Barack Obama e John McCain. Nashville era una delle capitali del sud segregazionista, racconta Zerlenga, “ma ora su Church street, al posto di quei negozi dove i negri non potevano entrare c’è una bella Public Library, con un bibliotecario bianco e una bibliotecaria nera, che espone le immagini del movimento dei diritti civili e della resistenza contro la segregazione”. La società americana è cambiata, riflette Zerlenga, e niente è stato più simbolico di questo cambiamento di quando Nashville è stata bloccata, isolato dopo isolato, per l’arrivo del possibile prossimo presidente negro Obama” (Zerlenga riesce a trovare una nobile via d’uscita polito-sociologica anche in un fastidioso e infinito ingorgo stradale).
L’elezione di Obama, sotto questo punto di vista, secondo Zerlenga ha un valore doppio: “Se sarà eletto, vorrà dire che questo scontro sotterraneo tra culture, questo residuo del passato razzista era meno ampio del previsto. Vorrà dire che ha ragione Obama, uno che se lo guardi bene sembra che ‘doesn’t care to be black’, non gli importa di essere nero”. (chr.ro)