New York. Il prossimo 20 gennaio, a mezzogiorno, dopo aver giurato sulla Costituzione, il presidente Barack Obama potrà contare su una solida spalla legislativa al Congresso, rinnovando l’antica ma non sempre proficua tradizione dell’“one-party rule” che capita ogni volta che tutta Washington, sia la Casa Bianca sia il Congresso, è controllata dallo stesso partito. E’ successo in sessantanove sessioni dei centodieci Congressi, la prossima sarà la settantesima.
Il partito unico a Washington non sempre è efficace, anzi sono in molti a sostenere che le cose funzionino meglio quando presidente e Congresso siano di colore diverso, come negli anni del repubblicano Ronald Reagan alla Casa Bianca e del democratico Tip O’Neill alla Camera. Negli anni Trenta l’allineamento di Casa Bianca e Congresso invece ha funzionato, consentendo a Franklin Delano Roosevelt di varare le leggi necessarie a superare la Grande depressione, ma quando il presidente ha cercato di fare di testa sua, il partito gli si è rivoltato contro. La stessa cosa è successa con Lyndon Johnson e la legislazione sui diritti civili, ma nel passato più recente la guida unitaria del potere esecutivo e legislativo non rappresenta un buon precedente per Obama. Sia Jimmy Carter sia Bill Clinton sono entrati alla Casa Bianca, come farà Obama a gennaio, con un Congresso democratico. In entrambi i casi le relazioni tra i due punti di Pennsylvania Avenue sono state faticose e hanno provocato vittorie del Partito repubblicano alle elezioni congressuali successive. Anche George W. Bush, nel 2004, aveva il Congresso dalla sua parte e sembrava in grado di realizzare la sua agenda interna. Invece sono stati proprio i suoi compagni di partito a fermare la riforma sanitaria e previdenziale su cui aveva cercato di costruire il secondo mandato. Il risultato, come ai tempi di Carter e Clinton, è stato il trionfo del partito di opposizione alle elezioni di metà mandato del 2006.
Obama sa benissimo che il rapporto con il suo partito sarà fondamentale e delicato, anche perché dovrà trovare un equilibrio tra le promesse di campagna elettorale e la realtà del governo. Ed è per questo che ha chiesto al combattente Rahm Emanuel, tostissimo deputato di Chicago, di assumere le redini del suo staff alla Casa Bianca, confidando nella nota capacità di Emanuel di saper guidare le truppe democratiche del Congresso. La scelta non promette la fine della radicalizzazione della politica americana, perché Emanuel è uno dei politici più partisan di Washington.
La soglia dei sessanta
Il Partito democratico controllava già il Congresso e le elezioni di ieri hanno aumentato il margine di vantaggio, anche se meno del previsto. Al momento, ma non è ancora finita, al Senato non è stata raggiunta la quota chiave di sessanta senatori, cioè la super maggioranza che consente di bloccare l’ostruzionismo con cui l’opposizione può rallentare o fermare leggi ed emendamenti. I democratici hanno strappato ai repubblicani cinque seggi, in North Carolina (dove è stata battuta Elizabeth Dole), in New Hampshire, in Virginia, Colorado e New Mexico, anche se è mancato il colpo grosso di destituire il leader repubblicano Mitch McConnell in Kentucky. Con questi cinque seggi, il Partito democratico ne controlla 56 e i repubblicani 40. Altri quattro sono ancora in ballo. La sfida tra il senatore uscente Norm Coleman del Minnesota e il comico liberal Al Franken (e un terzo candidato conservatore che ha preso 400 mila voti) è stata vinta con meno di 600 voti di scarto da Coleman, ma per legge è scattato il riconteggio ufficiale. In Oregon il repubblicano Gordon Smith è avanti di pochissimo sullo sfidante democratico. La stessa cosa in Georgia, dove il senatore repubblicano Saxby Chambliss è in vantaggio, ma pare non abbia superato il 50 per cento necessario per la legge locale a chiudere la partita. Se nei riconteggi dei prossimi giorni Chambliss rimarrà sotto il quorum, la legge della Georgia prevede che si rivoterà il 2 dicembre (ma senza un candidato liberista che ha preso il 3,4 per cento). Infine, ad alimentare la speranza dei democratici, c’è il senatore repubblicano dell’Alaska Ted Stevens, condannato qualche giorno fa per non aver denunciato favori finanziari per 250 mila dollari. Stevens è avanti d’un soffio, ma non sono state ancora considerate le 20 mila schede inviate per posta. In caso di elezione, il condannato Stevens potrebbe essere espulso, ma serviranno 67 voti di senatori. In quel caso sarà il governatore dell’Alaska, Sarah Palin, a nominare il sostituto. C’è chi dice che potrebbe autonominarsi lei. La stessa cosa capiterà in Illinois e in Delaware, dove i governatori sceglieranno i sostituti dei neoeletti alla Casa Bianca Barack Obama e Joe Biden. Alla Camera, i democratici hanno guadagnato almeno 19 seggi, consolidando la già ampia maggioranza.