Camillo di Christian RoccaThat's it/26

New York. “Fanelli’s cafe”, su Prince street all’angolo con Mercer, a Soho. Nato nel 1847, è il secondo ristorante più antico della città, tra quelli rimasti nello stesso edificio originale, funzionando anche come bar clandestino, “speakeasy”, negli anni del Proibizionismo. Il pensatore newyorchese Franco Zerlenga, già professore di storia dell’Islam alla New York University, ordina funghi grigliati Portobello, guarniti con peperoni rossi arrostiti, poi un petto di pollo con purée e verdure, una torta di zucca, una Guiness analcolica e un cappuccino decaffeinato. Zerlenga vorrebbe parlare di Turchia, e della sua ponderata e decisa oppisizione all’ingresso di Istanbul nell’Unione europea, ma è ancora euforico per la vittoria di Obama. Il prof. vede già le immagini del 20 gennaio, quando Obama giurerà sulla piazza di Washington, dove un tempo si vendevano i neri, e poi entrerà nella Casa Bianca che, come il Campidoglio, è stata costruita dagli schiavi. “L’America è un work in progress da duecento anni – dice –   fin dalla seconda riga della Costituzione ha detto che il suo obiettivo era quello di costruire una ‘more perfect union’, non è ideologica”. Zerlenga sfodera dalla sua inseparabile borsa di pelle nera la copertina post elettorale del New Yorker e un paio di libri di storia. Obama, spiega il pensatore newyorchese, sta leggendo un saggio su Abramo Lincoln, “Team of Rivals”, di Doris Kearns Goodwin, un libro fondamentale per capire il “genio politico” non solo di Lincoln, ma anche di Obama. In questo libro, aggiunge Zerlenga, c’è spiegato perché si parla di Hillary come Segretario di stato e perché ieri c’è stato l’incontro con John McCain. Non basta, però. Per Zerlenga è obbligatorio leggere anche la raccolta di saggi “Our Lincoln – New Perspectives”, curata dallo storico della Columbia University Eric Foner.
Il prof. italo-americano sottolinea che l’elezione di Obama ha già avviato un cambiamento sociale non da poco: “In Colorado, dove Obama ha vinto con il 58 per cento – dice – quegli stessi elettori che hanno scelto un nero come presidente hanno votato contro l’Affirmative action”, ovvero contro le politiche che riservano quote nelle scuole e nei posti di lavoro a favore degli afroamericani. Zerlenga, sempre preparato, estrae dalla borsa un numero di “The American Scholar”, una rivista accademica che pubblica un articolo di Charles Johnson, “un negro molto in gamba”, che spiega come l’America nera sia cambiata, non sia più quella di una volta e che ora abbia bisogno di una nuova storia da raccontare, perché “quella vecchia non è più adatta al mondo di Barack Obama”.
Il presidente eletto degli Stati Uniti dà una nuova opportunità a Zerlenga per criticare Walter Veltroni: “Se proprio vuole seguire Obama, dovrebbe fare come lui e puntare sul ‘team of rivals’, fare un accordo con Berlusconi per esempio per privatizzare le università, invece di continuare a fare il vecchio comunista secondo cui a contare sono le decisioni di partito e non quelle del Parlamento”. A Zerlenga non è piaciuta la gestione veltroniana della commissione di Vigilanza (“andrebbe abolita, e la Rai privatizzata”) e spiega che in America “è inimmaginabile” la richiesta di dimissioni di un presidente eletto da una commissione del Congresso: “L’America funziona proprio per questo – dice Zerlenga – perché i partiti non hanno nessuna influenza sul Congresso”.