New York. La “nuova alba” della politica estera di Barack Obama è cominciata ieri con l’annuncio ufficiale del suo team di politica estera e di difesa e con la constatazione che “il terrorismo non può essere contenuto dai confini, né la sicurezza può essere garantita soltanto dagli oceani”. La nuova era di Obama non sarà pacifista né isolazionista, ma pragmatica e realista. Ci sono due guerre da combattere, ha detto il presidente eletto in una conferenza stampa a Chicago, quella irachena può chiudersi con il completamento di una strategia che ha già ottenuto risultati sul campo – la conferma al Pentagono del segretario alla Difesa di Bush, Bob Gates, ne è la dimostrazione – ma quella contro i talebani in Afghanistan (che peraltro presero il potere nel 1996, ai tempi di Bill Clinton) e fin dentro i confini del Pakistan è nel mezzo di una ridefinizione cruciale e delicata, come hanno mostrato i più di duecento morti negli attacchi islamisti di Mumbai.
“Nel mondo che vogliamo – ha detto il presidente eletto presentando la sua squadra – non c’è spazio per chi uccide civili innocenti e per chi promuove un estremismo carico d’odio”. Per combattere questo estremismo, Obama ha scelto persone che “condividono” il suo “pragmatismo”, ma anche la stessa visione del mondo: Hillary Clinton al dipartimento di stato, Gates alla Difesa, l’ex generale dei marine James Jones al Consiglio per la sicurezza nazionale, Janet Napolitano alla Sicurezza interna, Susan Rice ambasciatrice all’Onu ed Eric Holder alla Giustizia. Nel weekend, Obama ha deciso di rimandare la nomina del direttore nazionale dei servizi (la persona di cui si parla è l’ammiraglio Dennis Blair, già comandante delle operazioni militari americane nel Pacifico negli anni di Bush), così come il direttore della Cia. Il problema di non facile soluzione è quello di trovare persone esperte di questioni di intelligence, ma non al punto da aver partecipato alle attività antiterrorismo di questi anni.
Per ora sono Clinton, Gates e Jones gli uomini e le donne della “nuova alba, del nuovo inizio” obamiano che, a seguire le parole del presidente eletto, è così pragmaticamente strutturato: “Rafforzeremo la nostra capacità di battere i nemici e di sostenere gli amici”; “rinnoveremo le vecchie alleanze e ne costruiremo di nuove e durature”; “mostreremo al mondo che l’America è infaticabile nel difendere il suo popolo, ferma nel portare avanti i suoi interessi e impegnata negli ideali che brillano come fari per il mondo: la democrazia e la giustizia, l’opportunità e l’indefessa speranza – perché i valori americani sono il più grande bene d’esportazione dell’America”. Le parole chiave della risposta al terrorismo islamista elaborata da George W. Bush ci sono tutte. Obama sa però che deve differenziarsi dall’attuale presidente. I malumori continuano a restare sottotraccia, ma la scelta di un bushiano, di una Clinton e di un generale dei marine nei posti chiave della sua Amministrazione, abbinato all’approccio realista ispirato alla politica estera del primo presidente Bush, sono elementi potenzialmente pericolosi per il presidente eletto che ha vinto le elezioni promettendo cambiamento specie sulle questioni legate alla sicurezza nazionale. Obama, così, ha provato a spiegare che gli obiettivi americani saranno perseguiti con “una nuova strategia che abilmente faccia uso, integri e trovi un equilibrio tra tutti gli elementi del potere americano: l’esercito e la diplomazia; l’intelligence e lo stato di diritto; la nostra economia e il nostro esempio morale”. E ha ribadito che sarà lui e soltanto lui a definire le linee politiche e di azione.
I timori di Islamabad
Il primo test è già in corso: è il Pakistan. Il team scelto da Obama, le parole usate – le prime dall’attacco di mercoledì scorso a Mumbai – e la conferma che “non siamo repubblicani né democratici, siamo americani” lasciano intuire che ci sarà una sostanziale continuazione della strategia adottata dall’Amministrazione Bush. Il generale David Petraeus, che ha il comando delle operazioni del Pentagono dall’Egitto alla Cina, ha già imposto alcuni fondamentali cambiamenti alle relazioni tra Washington e Islamabad: regole d’ingaggio più aggressive, attacchi più frequenti nelle zone fuori controllo tra Pakistan e Afghanistan e anche altrove, nel caso gli obiettivi cercati siano sensibili. L’appello del presidente pachistano, Ali Zardari, a non confondere i terroristi pachistani che hanno attaccato l’India con il governo di Islamabad esprime sia la sua incapacità di governare il fondamentalismo sia il timore che l’accordo in vigore già da luglio con le forze americane possa saltare. Ipotesi impensabile nel momento in cui si apre un fronte di guerra con Nuova Delhi.