Barack Obama è il dodicesimo presidente americano – il primo è stato Harry Truman, nel 1948 – costretto a dover affrontare il gran caos mediorientale, ovvero l’intreccio politico, religioso ed energetico che si è creato intorno alla precisa, costante e coerente scelta di buona parte del mondo arabo e islamico di non accettare la nascita dello Stato di Israele, decisa dall’Onu sessantuno anni fa. Ancora per quindici giorni, Obama non ha intenzione di dire una parola su quello che sta succedendo a Gaza, lasciando di stucco i suoi sostenitori progressisti di qua e di là dell’Oceano.
Il mantra quotidiano di Obama è che in America esiste un presidente per volta e che fino al momento del suo giuramento – il 20 gennaio a mezzogiorno – il comandante in capo in carica è ancora George W. Bush. Obama, in realtà, parla quasi ogni giorno, ma di economia, di lavoro, di ambiente. Gli attacchi missilistici di Hamas contro i civili israeliani, la condanna dell’ala moderata dei palestinesi, la preoccupazione araba per il fanatismo religioso di Gaza, l’incitamento iraniano e la risposta militare di Israele sono per il momento un argomento tabù per il suo team di politica estera e di difesa, guidato da Hillary Clinton, dal generale dei marines Jim Jones e dal capo del Pentagono di Bush, Bob Gates. Un altro uomo chiave di Obama è il suo capo dello staff, Rahm Israel Emanuel, detto Rambo, figlio di partigiani israeliani e nel 1991 volontario civile nell’esercito di Israele, durante gli attacchi di Saddam Hussein.
La sensazione è che il silenzio di Obama non sia dovuto soltanto al doveroso rispetto del cerimoniale presidenziale, ma anche all’imbarazzo di doversi rivelare agli occhi del mondo, e fin dal primo giorno, come un continuatore della politica di Bush. La posizione ufficiale della Casa Bianca di Bush, sostenuta dietro le quinte dal presidente palestinese Abu Mazen, dall’Egitto e dalla Giordania e dalla grande maggioranza della stampa americana, è che Hamas ha violato unilateralmente la tregua e che Israele ha il diritto di difendersi per fermare la pioggia di missili, oltre seimila in un anno, lanciati contro i civili delle sue cittadine. A luglio, durante una visita a Sderot, una delle cittadine israeliane colpite dai missili di Hamas, Obama aveva detto che se "qualcuno lanciasse razzi sulla mia casa, dove dormono le mie bambine, farei di tutto per fermarli e mi aspetterei che Israele facesse la stessa cosa".
Obama si augura che Israele concluda le operazioni militari a Gaza prima del 20 gennaio e, più in generale, spera che la sua presenza alla Casa Bianca possa avere sul mondo islamico lo stesso effetto catartico che la sua candidatura ha avuto in America e in Occidente. Le stragi islamiste a Mumbai e i missili di Hamas avvertono che sarà alquanto difficile.
Christian Rocca
5 Gennaio 2009