Camillo di Christian RoccaIl lato oscuro della guerra

Da Lincoln a Roosevelt, da Bush a Obama, così l’America concilia stato di diritto e sicurezza nazionale (articolo molto lungo)

di  Christian Rocca

George W. Bush, per sadismo o chissà cos’altro, torturava e stracciava la convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra, mentre Barack Obama ha finalmente restaurato la legalità internazionale e riconoscerà quanto prima ai detenuti della guerra al terrorismo tutti i diritti garantiti ai cittadini americani. Questa ricostruzione semplificata dei primi sette anni della guerra ad al Qaida e ai fondamentalisti islamici è sulla penna di molti giornalisti e in bocca a molti analisti ma non corrisponde a verità, oltre a non tenere conto delle condizioni ambientali in cui sono maturate le scelte dei due presidenti.
Il 22 gennaio scorso, quasi novanta mesi dopo l’11 settembre del 2001, il presidente Obama ha firmato un decreto esecutivo per “promuovere il trattamento sicuro, legale e umano degli individui tenuti in custodia dagli Stati Uniti durante un conflitto armato”. Il senso politico e pubblico del decreto di Obama è chiaro: non valgono più le regole stabilite dall’Amministrazione Bush, non esiste più la figura del “nemico combattente”, la convenzione di Ginevra si applica nella sua interezza, i detenuti non possono essere sottoposti a trattamenti umilianti e degradanti. Per condurre gli interrogatori, si legge nell’ordine del neopresidente, si applicheranno le regole del manuale militare di campo che, di fatto, rendono impraticabile anche la classica tattica del poliziotto buono e del poliziotto cattivo che si vede nei polizieschi hollywoodiani.
Obama è riuscito con un tratto di penna a togliersi di dosso la pesante immagine bushiana, anche se in realtà s’è preso sei mesi di tempo per riflettere meglio sulla questione e ha affidato a una task force il compito di valutare se siano davvero necessarie altre tecniche più incisive di interrogatorio, le stesse usate negli anni di Bush. I consiglieri legali del presidente hanno già avvertito deputati e senatori che Obama potrebbe prendere in considerazione l’ipotesi di aggiungere al decreto un protocollo speciale sugli interrogatori, in modo da andare incontro agli eventuali suggerimenti della task force e alle pressanti richieste della comunità d’intelligence.

Un passo indietro. Il 7 febbraio 2002, cinque mesi dopo l’11 settembre del 2001, le macerie delle torri non erano state ancora rimosse del tutto, c’era la minaccia dell’antrace, Kandahar era caduta da sei settimane e, soprattutto, i rapporti di intelligence annunciavano quotidianamente al presidente attentati e scenari apocalittici. L’obiettivo principale di Bush era di fermare in tempo un’altra strage e di cercare, trovare e valutare ogni informazione possibile per prevenire ulteriori attività terroristiche sul suolo americano o contro obiettivi statunitensi. Con le parole chiare dell’allora vicepresidente Dick Cheney, già il 16 settembre 2001, la politica di sicurezza nazionale è diventata questa: “Dobbiamo lavorare anche su una specie di lato oscuro, nelle ombre del mondo d’intelligence, perché se vogliamo avere successo molte delle cose che dobbiamo fare dovranno essere fatte in modo silenzioso, senza alcuna discussione, usando fonti e metodi a disposizione dei nostri servizi segreti”.

Quel 7 febbraio 2002 il Congresso aveva già votato alla quasi unanimità il Patriot Act e, nove mesi dopo avrebbe autorizzato a grande maggioranza bipartisan l’uso della forza per disarmare Saddam Hussein. Quel giorno, invece, Bush ha firmato un decreto esecutivo per stabilire le condizioni giuridiche e i confini delle modalità di interrogatorio dei detenuti di al Qaida e dei talebani catturati in Afghanistan e in giro per il mondo. La sfida lanciata dai terroristi, diceva quel decreto, richiede nuove riflessioni sulle leggi belliche, anche se queste nuove idee “devono in ogni caso essere coerenti con i principi della convenzione di Ginevra”.
Primo punto, dunque. Non è vero che Bush si è disfatto dei principi della convenzione di Ginevra: li ha riconfermati. Il decreto diceva che i militanti di al Qaida e i talebani non sarebbero stati riconosciuti come “prigionieri di guerra” e che il loro status sarebbe stato invece di “combattenti illegali”. L’articolo 3 della convenzione, uno dei due che secondo Bush non era applicabile ai terroristi e ai talebani, dice esplicitamente che i prigionieri non possono essere uccisi, mutilati, torturati né sottoposti a trattamenti degradanti e umilianti. Ma il decreto di Bush aggiunge: “Naturalmente, i nostri valori come nazione, i valori che condividiamo con molti altri paesi del mondo, ci impongono di trattare i detenuti umanamente, compresi coloro che non hanno il diritto legale a questo trattamento. La nostra nazione è stata e continuerà a essere una forte sostenitrice di Ginevra e dei suoi principi. La politica delle forze armate degli Stati Uniti sarà quella di continuare a trattare umanamente i detenuti, in consonanza e in accordo con le necessità militari, in modo coerente con i principi di Ginevra”.

In sintesi, considerata l’emergenza del momento, Bush ha specificato che chi uccide civili innocenti e non combatte a nome di uno stato sovrano non ha diritto alle garanzie previste da Ginevra a favore dei prigionieri di guerra, perché non è un prigioniero di guerra tradizionale con la divisa e l’appartenenza a uno stato contraente. E, infine, ha ribadito che il prigioniero in ogni caso deve essere trattato in modo umano e coerente con i principi della convenzione di Ginevra.
In questo modo, Bush ha fornito alla complessa macchina dell’antiterrorismo americano uno spazio di flessibilità giuridica e d’azione in cui poter condurre indagini appropriate e approfondite, senza per questo rinunciare ai principi fondamentali americani. Anche se hanno cominciato a dirlo soltanto parecchi anni dopo, gli avversari di Bush ora sostengono che questa decisione di non considerare i terroristi come soggetti giuridici della convenzione di Ginevra abbia aperto la strada alle torture, agli abusi, perfino ad Abu Ghraib. Ma non è sempre stato così.

Il 17 febbraio del 1987, il New York Times ha scritto un editoriale per applaudire la decisione dell’allora presidente Ronald Reagan di non accettare l’estensione ai terroristi, in particolare quelli palestinesi, dello status giuridico di “prigionieri di guerra” previsto dal protocollo 1 allegato alla Convenzione di Ginevra. Il presidente democratico Jimmy Carter, nel 1977, aveva rifiutato di firmare il protocollo e il suo successore Reagan, ha scritto il Times, ha fatto bene a rigettarlo unilateralmente, senza nemmeno passare dal Senato, perché in caso contrario il suo gesto “avrebbe potuto essere interpretato come una legittimazione dei terroristi”. Bush non ha fatto altro che ribadire la linea del New York Times di allora: i terroristi non sono “prigionieri di guerra” garantiti da Ginevra.

Nello stesso giorno del Times, con un editoriale dal titolo “Dirottata la convenzione di Ginevra”, il Washington Post ha scritto che il nuovo protocollo allegato alla convenzione di Ginevra e rifiutato dagli Stati Uniti “garantisce lo status di combattenti (e, quando catturati, di prigionieri di guerra) a combattenti irregolari che non vestono uniformi e non si distinguono dalla popolazione civile – in pratica a quelli che il mondo riconosce come terroristi”. Ecco. Prima ancora di Bush e dell’11 settembre, già quando alla Casa Bianca c’era il futuro Nobel per la pace Carter e poi Ronald Reagan, l’America – e molte altre nazioni occidentali, compresa la Francia – non riconosceva ai terroristi lo status di “prigioniero politico” previsto da Ginevra. E, per questo, riceveva gli elogi dei grandi giornali liberal del paese.

Pochi giorni prima del decreto esecutivo di Bush, il 29 gennaio 2002, il consigliere legale della Casa Bianca, Alberto Gonzales, aveva scritto un memorandum giuridico che è servito da base per il provvedimento firmato da Bush il 7 febbraio. Gonzales sosteneva che “alcune previsioni della convenzione di Ginevra sono curiose”. Due anni dopo la frase è stata svelata dal New York Times e s’è gridato allo scandalo, quasi fosse la prova che l’Amministrazione cercasse un lasciapassare giuridico per compiere le più brute violazioni dei diritti fondamentali. In realtà, come è stato costretto ad ammettere lo stesso Times il giorno dopo nella rubrica “correzioni”, le “curiose previsioni” di cui scriveva Gonzales non riguardavano tortura e abusi, ma erano ben specificate nel memo: “gli anticipi sulla paga mensile”, le “uniformi sportive” e gli “strumenti scientifici” garantiti ai prigionieri di guerra dalla convenzione di Ginevra. Riconoscere ai terroristi di al Qaida e ai talebani diritti di questo tipo sarebbe stato effettivamente “curioso”, ma la Casa Bianca di Bush non s’è curata di spiegare per bene la faccenda, anche perché era impegnata a prevenire un altro attentato, piuttosto che occuparsi di operazioni di marketing.
Nel medio termine ha funzionato, anche perché in quel momento c’era poca opposizione, ma con il passare degli anni, con la distanza dall’11 settembre e la stanchezza della retorica della guerra al terrorismo, questa incapacità di comunicare ha travolto la presidenza.

L’Amministrazione Bush e le agenzie di intelligence avevano bisogno di essere certe che non avrebbero violato la legge durante la conduzione delle operazioni antiterrorismo e degli interrogatori dei sospetti, perché il timore di doverne risponderne in futuro avrebbe convinto gli agenti e gli analisti a non prendersi rischi. La stessa cosa era successa prima degli attacchi a New York e Washington, come ha riconosciuto la “Commissione sull’11 settembre”. Osama bin Laden, per esempio, in tre occasioni degli anni Novanta non è stato ucciso dalla Cia perché gli agenti con il dito sul grilletto avevano chiesto conferme a Washington per paura di doverne rispondere in futuro, visto che vigeva il divieto presidenziale di assassinare leader stranieri, firmato negli anni Settanta da Gerald Ford e riconfermato da tutti i suoi predecessori. Dopo l’11 settembre, Bush ha specificato che il divieto non vale mentre l’America è impegnata in una guerra, e Obama non ha cambiato rotta.
L’obiettivo, in quei giorni, era prevenire un altro attacco. La convenzione di Ginevra impedisce di interrogare i prigionieri, se questi rifiutano di rispondere. Le uniche domande ammesse da Ginevra, secondo l’articolo 17, sono quelle sul nome, cognome, data di nascita, numero di matricola e grado. Chi rifiuta di rispondere “non può essere minacciato, insultato, né esposto ad angherie o a svantaggi di qualsiasi natura”. E non è nemmeno possibile premiare chi collabora.

Nel gennaio 2002, quando Gonzales scriveva la sua memoria legale e Bush si apprestava a firmare il decreto poi chiamato “delle torture”, un politico americano di cui tra qualche riga leggerete il nome ha detto in un’intervista alla Cnn: “Una delle cose che vogliamo fare con questi prigionieri è quella di avere la capacità di interrogarli e di capire quali potrebbero essere i loro piani futuri, dove siano le altre cellule; la convenzione di Ginevra limita la quantità di informazioni che possiamo ottenere da queste persone. Mi sembra, in ogni caso, che queste non siano, in realtà, persone col diritto alla protezione della convenzione di Ginevra. Non sono prigionieri di guerra. Se, per esempio, Mohamed Atta fosse sopravvissuto agli attacchi del World Trade Center, lo considereremmo prigioniero di guerra? Non penso. Zacarias Moussaoui può essere considerato un prigioniero di guerra? Di nuovo, penso di no”.
Il politico americano che ha pronunciato queste parole è Eric Holder, amico personale di Barack Obama e ora in attesa di diventare attorney general, cioè ministro della Giustizia, della nuova Amministrazione appena insediatasi a Washington. Questo era il clima, questa era la situazione, questi erano i sostenitori della scelta di Bush.
Nell’agosto 2002 l’ufficio legale del dipartimento di Giustizia, l’organo che interpreta per l’Amministrazione le leggi in vigore, ha fornito un parere sullo status giuridico da accordare ai terroristi catturati in battaglia. L’ufficio ha risposto con una serie di memorandum scritti dal professore John C. Yoo, luminare di diritto bellico all’Università della California. Il primo agosto del 2002 il vice attorney general, Jay S. Bybee, su richiesta di Gonzales ha firmato un parere di 50 pagine, scritto in realtà da Yoo, per definire che cosa fosse tortura e che cosa no. E’ tortura, ha spiegato il giurista restringendo la definizione, tutto ciò che provoca la morte o un dolore fisico pari a quello che causa danni permanenti. Bybee e Yoo, inoltre, hanno scritto che il presidente, invocando la sicurezza nazionale, ha il diritto di autorizzare gli strumenti di interrogatorio che reputa necessari, senza che gli si possa imputare la violazione delle leggi antitortura.

Due anni dopo, nel 2004, l’ufficio legale del dipartimento della Giustizia guidato da Jack Goldsmith ha ritirato il parere e l’ha sostituito con una definizione ben più ampia della tortura e con la spiegazione che il “memo di agosto” non aveva alcun motivo di dire che il presidente in tempo di guerra ha il diritto costituzionale di autorizzare la tortura perché, inequivocabilmente, fin dal 7 febbraio 2002, Bush aveva stabilito con un decreto esecutivo che l’America non l’avrebbe permessa.
Quelli però erano i mesi di Abu Ghraib, lo scandalo degli abusi sui detenuti iracheni denunciato al Pentagono da un soldato americano. Le torture compiute da un gruppo di commilitoni  sui prigionieri, fotografate dagli stessi criminali che se ne sono resi responsabili, non c’entravano nulla con il dibattito su Ginevra, con le storie sulla modalità di interrogatorio e nemmeno con lo status di “nemico combattente” dei prigionieri. Gli abusi non erano stati effettuati per estorcere informazioni ai detenuti, ma per sadico divertimento dei protagonisti. In ogni caso, rispetto alla guerra in Iraq e agli iracheni catturati non era stata sospesa nessuna norma di Ginevra e i detenuti di Abu Ghraib erano coperti dalla convenzione.

Nel carcere di Bagram, in Afghanistan, è certo che siano stati commessi abusi e alcuni talebani e jihadisti di Bin Laden non ne sono usciti vivi. E’ stato a Bagram, carcere che Obama non ha affatto deciso di chiudere, che è stata utilizzata la tecnica di interrogatorio nota come waterboarding che simula l’affogamento dell’interrogato. Il waterboarding è l’unica delle iniziali 24 tecniche di interrogatorio autorizzate dal Pentagono a confinare decisamente con la tortura. Secondo il neoministro della Giustizia di Obama, Eric Holder, è certamente tortura. L’Amministrazione Bush sostiene che grazie al waterboarding sono state ottenute informazioni vitali, specie nel corso dell’interrogatorio di Khaled Sheik Mohammed, l’architetto delle stragi dell’11 settembre. Il waterboarding, inoltre, è stato utilizzato soltanto tre volte, mai dopo il 2003.

Alla fine del 2005, dopo un voto a larghissima maggioranza alla Camera e al Senato su una proposta di John McCain, Bush ha firmato la legge che vieta l’uso della tortura. Bush ha ribadito che il divieto “rende chiaro al mondo che questo stato non tortura e aderisce alla convenzione internazionale sulla tortura, sia qui in patria sia all’estero”. Siamo ancora nel 2005, tre anni pieni prima della firma del decreto esecutivo di Obama della settimana scorsa. Nel 2006 la Cia ha vietato il waterboarding, anche se non veniva usato da tre anni, e ha chiesto e ricevuto l’autorizzazione di sette tecniche “avanzate” di interrogatorio: far stare al freddo o in piedi per lunghi periodi i detenuti, privarli dei vestiti e del sonno, uso manipolativo della luce e dei suoni, schiaffeggiare senza creare danno fisico.

Il 30 luglio del 2007, Bush ha firmato un decreto esecutivo, cancellato la settimana scorsa da Obama, con cui ha riconfermato che i prigionieri di al Qaida non possono rientrare nelle norme previste dalla convenzione di Ginevra, ma che in ogni caso “le condizioni di detenzione e interrogatorio non includono la tortura, come definita dalla legge americana”. Il testo di Bush elenca tutto ciò che è vietato, non soltanto la tortura, ma anche il trattamento crudele, disumano, degradante e tutti gli atti di violenza grave e di umiliazione fisica, religiosa e sessuale del detenuto. Tutto questo, a metà del 2006.
Il filosofo inglese John Locke – ha scritto il giurista Jack Goldsmith nel libro “The terror presidency” – sosteneva che il primo dovere di un leader è proteggere il proprio paese, non seguire la legge. Anche Thomas Jefferson, padre della patria americana, la pensava allo stesso modo. Così hanno fatto grandi presidenti americani come Abramo Lincoln e Franklin Delano Roosevelt quando si sono trovati in situazioni di grande emergenza nazionale. Lincoln, in particolare, ha ritenuto che per il presidente fosse legale qualsiasi azione necessaria a proteggere la nazione. E, infatti, ha sospeso l’habeas corpus, cioè il diritto alla difesa, ha imprigionato migliaia di manifestanti del sud senza alcuna incriminazione, ha ignorato la sentenza della Corte suprema che imponeva il rilascio di un cittadino detenuto illegalmente. Allo stesso modo, Roosevelt si è assunto poteri straordinari per affrontare l’inflazione in patria e la Guerra mondiale oltreoceano.

Gli abusi ci sono stati, allora come negli anni di Bush, e probabilmente continueranno anche nell’era di Obama, anche se il neopresidente è decisamente più capace di Bush a mostrare al pubblico il lato soft della potenza americana. Eppure l’ossessione di Bush e dei suoi sul trattamento dei detenuti e le leggi di guerra è stata dettata dalla volontà di trovare una copertura giuridica alle opache attività antiterrorismo e una legittimazione legale al “lato oscuro” della guerra contro al Qaida.
Prima dell’11 settembre, non ce n’era bisogno perché l’America usava le “extraordinary rendition” escogitate da Bill Clinton: la Cia catturava un sospetto in un paese straniero e lo trasferiva in un paese terzo mediorientale dove i servizi locali potevano interrogarlo togliendosi i guanti. Gli attacchi a New York e Washington hanno convinto Bush che appaltare gli interrogatori non fosse più sufficiente e che fosse necessario gestire direttamente le indagini.

Con la chiusura di Guantanamo, secondo il Los Angeles Times, i sequestri clandestini torneranno di gran moda, “assieme ai missili Predator”. Barack Obama, in realtà, ha deciso che le prigioni segrete della Cia potranno continuare a detenere terroristi, ma soltanto temporaneamente e per brevi periodi. E, a leggere bene i decreti con cui ha smantellato (in attesa di revisione tra sei mesi) alcuni pilastri dell’architettura giuridica antiterrorismo di Bush, si scopre che le scelte di Obama sono sempre e comunque subordinate “agli interessi di sicurezza nazionale e di politica estera degli Stati Uniti”.