Camillo di Christian RoccaKrugman superstar

Così come in Italia l’unica alternativa a Silvio Berlusconi sembra essere quella rappresentata dal fedele alleato Gianfranco Fini, in questo momento Barack Obama non deve preoccuparsi di alcun avversario conservatore in particolare, e nemmeno del Partito repubblicano in generale, quanto piuttosto di un influente intellettuale liberal e di sinistra che negli anni scorsi è stato uno dei più feroci martellatori della politica economica di George W. Bush.

Così come in Italia l’unica alternativa a Silvio Berlusconi sembra essere quella rappresentata dal fedele alleato Gianfranco Fini, in questo momento Barack Obama non deve preoccuparsi di alcun avversario conservatore in particolare, e nemmeno del Partito repubblicano in generale, quanto piuttosto di un influente intellettuale liberal e di sinistra che negli anni scorsi è stato uno dei più feroci martellatori della politica economica di George W. Bush.
Paul Krugman è il premio Nobel per l’Economia 2008, editorialista del New York Times e professore keynesiano di Affari economici e internazionali a Princeton. Formidabile divulgatore di complicate teorie economiche, sostenitore dell’intervento dello stato nell’economia, paladino dell’antibushismo militante, ma anche spiritosissimo blogger, da qualche mese Krugman è soprattutto il critico più serio e credibile del piano elaborato da Obama per uscire dalla recessione. I repubblicani, abbarbicati su posizioni populiste e risibili proteste antitasse, sanno soltanto dire di no a qualsiasi proposta di stimolo pubblico e, al massimo, chiedere ulteriori riduzioni fiscali, dimenticandosi che l’approccio di Obama per uscire dalla recessione è pressoché identico a quello avviato negli ultimi mesi della sua presidenza dal repubblicano Bush.
A Krugman, infatti, il piano Obama non piace proprio per questo, anche se non soltanto perché è stato elaborato negli odiati ambienti bushiani. Il premio Nobel lo reputa un intervento “insufficiente”. Il piano del segretario al Tesoro di Obama, Tim Geithner, ripete ogni volta che può Krugman sul Times e sul suo blog, è troppo timido e sostanzialmente simile a quello varato dal predecessore Hank Paulson, a cui peraltro lo stesso Geithner aveva contribuito nel ruolo di presidente della Federal Reserve di New York.
Così, ora che Bush non c’è più, l’ossessione di Krugman sono diventati Geithner e alcune precise scelte della presidenza Obama. Il Nobel ha accusato gli obamiani di avere “legami stretti con Wall Street”, di essere “scollegati dalla realtà”, di riciclare ancora una volta l’approccio bushiano e di essere stati sul punto di bruciare tutta la credibilità politica guadagnata alle elezioni di novembre su un piano di rilancio dell’economia che non potrà funzionare perché si basa sul presupposto che il sistema bancario sia solido: “Quando si accorgerà che avrà bisogno di cambiare rotta, il suo capitale politico potrebbe essere svanito”.
La ricetta del premio Nobel è nazionalizzare le banche impelagate con i titoli tossici e prenderne il controllo diretto, come ha fatto la Svezia negli anni Novanta. Solo così, secondo Krugman, il governo può diffondere sicurezza nel sistema finanziario e garantire la gran parte dei debiti delle banche. Qualche settimana fa, grazie alle sue costanti critiche alla politica della Casa Bianca, Krugman si è guadagnato la copertina di Newsweek proprio per il suo ruolo di solitario oppositore di Obama. La sua puntuta critica ai piani economici e sociali del presidente, in realtà, risale già ai tempi della campagna elettorale, quando l’editorialista del Times si era impegnato in una miniguerra contro l’allora senatore Obama, accusato di essere il candidato della conservazione, più che del cambiamento. Krugman sosteneva che i richiami bipartisan del candidato afroamericano fossero un cedimento al fronte conservatore, così come la sua ingiustificata preoccupazione sulla solvibilità del sistema pensionistico e la timidezza del piano sanitario che, a differenza di quello di Hillary Clinton e John Edwards, non prevedeva la copertura assicurativa universale per tutti gli americani.
La doppia column settimanale sul Times, il Nobel per l’economia, i libri di successo (gli ultimi due sono “La coscienza di un liberal” e “The Return of Depression Economics and the Crisis of 2008”), ma anche i meriti anti Bush conquistati sul campo, la critica da sinistra a Obama e la copertina di Newsweek hanno trasformato il cinquantaseienne Krugman in un’intoccabile megastar internazionale come lo stesso Obama, David Beckham o Bono degli U2. I riflettori sono riusciti in qualche modo a far dimenticare l’estrema partigianeria dei suoi scritti politici (la settimana scorsa, sul Times, non ha nemmeno argomentato le sue critiche ai repubblicani, gli è bastato scrivere che sono “pazzi”) per cui era stato definito il columnist più di parte d’America dopo quella simpatica matta di Ann Coulter. Ora che Krugman è una superstar, nessuno ricorda più che l’Economist fino a qualche tempo fa lo paragonava a “un Michael Moore, però pensante”.
A Krugman questo nuovo status di celebrità mondiale piace non poco e modestamente spiega che “la vita non è cambiata per niente, continua a essere quella di prima, molto lavoro e soliti dieci, quindici chili da perdere”. E malgrado qualcuno sospetti che una parte del suo astio contro Obama sia dovuto al fatto di non essere entrato nel ristretto gruppo di geni economici assemblato dal presidente, esattamente com’era successo ai tempi di Bill Clinton che non ha mantenuto la promessa di farlo entrare nella sua squadra, Krugman non si sente affatto un escluso per non essere mai stato invitato alla Casa Bianca. Anzi, con una punta di civetteria dice: “Dentro l’Amministrazione leggono che cosa scrivo? Sì, mi leggono. Ogni tanto mi chiamano per farmi una lavata di capo per quello che ho scritto? Sì, fanno anche questo. Non posso sentirmi ignorato e in un certo senso sono la persona che al mondo ha meno senso incontrare. Sono abbastanza visibile. I’m the most visible. Le mie opinioni sono nei miei articoli e ogni giorno sul blog, non c’è bisogno che mi invitino”.
Lunedì scorso, Krugman era ospite del Foreign Press Center di New York, l’ufficio del dipartimento di stato che assiste i corrispondenti stranieri. Si è presentato ai giornalisti non americani dicendo di non essere certo a cosa fossero davvero interessati, perché “a giudicare da quanto si è visto negli ultimi giorni, i giornalisti americani scrivono principalmente di cani e pirati”. E, invece, “credo vi siate accorti che c’è la crisi economica. Per certi versi è simile alla crisi di cui parlo da più di un decennio”. Krugman, infatti, prevede da anni catastrofi economiche e apocalissi finanziarie e ha annunciato la recessione nel 2003, nel 2004, nel 2005, quando invece l’economia americana è cresciuta a un ritmo superiore a quello dei paesi del G7. Dopo anni di previsioni sbagliate e grandi ricchezze create, finalmente ha avuto ragione.
Oggi però il super prof. sembra leggermente più ottimista rispetto anche al più recente passato. Crede che l’economia americana possa tornare a crescere già a settembre di quest’anno, ma teme che la perdita dei posti di lavoro continuerà per tutto il 2010, probabilmente fino al 2011 inoltrato. Il piano di Obama, dice Krugman, è ancora troppo timido, ma va comunque nella direzione giusta. La direzione giusta, per il Nobel, è un’America più socialdemocratica e più europea, con maggiori reti di sicurezza sociale per i cittadini. Ma questa volta, nonostante le timidezze di Obama sul pacchetto di stimolo economico, secondo Krugman soltanto “è l’America ad aver ragione”, mentre “è l’Europa a sbagliare”. Krugman, inoltre, non crede che questa crisi, per quanto spaventosa, possa trasformarsi davvero in una nuova Grande Depressione.
Come ne usciamo. “Le domande sono due. La prima è come possiamo mitigare gli effetti di questa crisi e la seconda come facciamo a evitare che diventi davvero la Grande Depressione 2.0. Sappiamo che ci sono alcune cose che si possono fare per limitare la profondità della crisi: politiche molto aggressive per liberare i mercati finanziari, espansione monetaria, ampio menu di politiche monetarie e di espansione fiscale. Tutte queste cose hanno sempre funzionato nel senso che quando sono state applicate l’economia è andata meglio di quando non c’erano. Stiamo facendo tutte queste cose, anche se, secondo me, non a un livello sufficiente. Comunque le stiamo facendo. Il problema di come facciamo davvero a porre fine alla crisi è diverso, anche perché non abbiamo molti modelli da seguire. La Grande Depressione è finita con la Seconda guerra mondiale, ma ancora oggi non siamo sicuri come mai la guerra abbia fatto crescere l’economia, non sappiamo perché non sia scivolata di nuovo nella Depressione”.
Che cosa fare. “Probabilmente abbiamo bisogno di fare piazza pulita nelle banche e di un prolungato stimolo pubblico fino a quando il settore privato riesce a mettere a posto i suoi bilanci e riprende a spendere”.
I mercati azionari. “C’è una famosa battuta di Paul Samuelson che dice che i mercati hanno previsto nove delle ultime cinque recessioni. Posso aggiungere che i mercati azionari hanno previsto sei volte l’ultima ripresa. Le Borse non sono una guida affidabile di ciò che sta davvero succedendo. Penso che i mercati stiano reagendo al fatto che abbiamo passato un periodo in cui tutte le notizie economiche sono state sorprese negative. Le cose sono sempre state peggiori di quelle che la gente si aspettava. Ora invece siamo in un momento in cui le sorprese sono miste, ma alcune sono positive e questo in qualche modo fa sentire meglio la gente. Ma non credo significhi molto. Per quello che vale, ci sono segni che il crollo stia rallentando, il che vuol dire che le cose stanno peggiorando più lentamente. Nei numeri non ci sono segnali di una vera ripresa”.
La bolla. “Tendiamo a dimenticarci di quanto eravamo spaventati, in modo particolare negli Stati Uniti, riguardo alle previsioni economiche del 2002 e dell’inizio 2003. Era una economia fortemente depressa. Ufficialmente la recessione era finita, ma in termini di impiego le cose continuavano ad andare peggio. C’era una minaccia reale e percepita di deflazione. La bolla edilizia è arrivata a salvarci da quella trappola. Il problema, ovviamente, è che quando la bolla scoppia, ci ritroviamo con una versione decisamente peggiore dello stesso problema. Avremmo fatto meglio a fare allora tutto ciò che era necessario, anziché rimandare”.
Il debito e la spesa pubblica. “Lasciamo da parte, per un momento, la distinzione tra debito pubblico e privato. La situazione è così brutta perché abbiamo sincronizzato aumento e diminuzione del debito. Tutti cercavano di prendere più soldi a prestito e allo stesso tempo di comprare più beni. La bolla è questa. Ora abbiamo una situazione in cui tutti cercano di vendere e di risparmiare. Questa è la depressione. Così ora siamo nel pieno del paradosso del risparmio, in cui tutti cercano di risparmiare, ma con il risultato di abbassare i redditi e di diventare tutti più poveri. Ma siamo anche nel paradosso del “deleveraging”, in cui tutti cercano di vendere beni per pagare i debiti col risultato che i prezzi dei beni crollano e i bilanci peggiorano. Ciò che serve è un’istituzione importante che vada nella direzione opposta. Serve un attore importante che faccia salire di corsa il debito mentre tutti gli altri cercano di ridurlo e che paghi il debito mentre tutti gli altri diventano matti. Questo è il ruolo della spesa pubblica”.
America ed Europa. “Penso che gli Stati Uniti abbiano ragione e l’Europa torto. Quando si affronta questo tipo di rischio si fa tutto ciò che è possibile. (…) I deficit finanziari sono grandi, ma in una prospettiva di lungo termine, in realtà non si aggiunge molto. Abbiamo già un problema finanziario di lungo termine. Altri mille miliardi di dollari non fanno una grande differenza, rispetto alla dimensione del problema. E in termini di dollari contro euro, le prospettive dell’euro di diventare equivalente al dollaro come moneta mondiale mi pare stiano diminuendo, non aumentando. La ragione non ha nulla a che fare con le politiche della Fed rispetto a quelle della Banca centrale europea. Il punto è che gli asset sicuri della Zona euro sono di meno e più frammentati di quelli della Zona dollaro. Se si cercano asset sicuri in dollari ci sono le obbligazioni a breve del Tesoro americano. Se si cercano beni sicuri di lungo termine, si comprano i buoni del Tesoro. Sì, so bene che esiste la possibilità che anche il governo degli Stati Uniti possa essere inadempiente, ma si tratta di una situazione in cui tutto il mondo andrebbe a rotoli. In questo caso non esistono beni sicuri e l’unica cosa più sicura di un’obbligazione dello stato americano è la razione di sopravvivenza nel rifugio nucleare. Quindi gli Stati Uniti offrono una grande possibilità di asset sicuri. Gli stati europei emettono obbligazioni, e quelle tedesche e francesi sono molto sicure. Il guaio è che sono frammentate. Ci sono diverse nazionalità e non si può pensare che un eurobond sia davvero un eurobond. Un euro bond greco non è sicuro quanto quello tedesco. Anche un’obbligazione spagnola e certamente una irlandese non sono equivalenti”.
G20. “Il G20 ha avuto un successo infinitamente maggiore rispetto al tipico summit internazionale. E’ un grande risultato perché almeno ha ottenuto qualcosa, mentre i meeting solitamente non concludono niente. Ha aumentato le risorse, anche se non quanto dicono i numeri riportati dai titoli dei giornali, di parecchie centinaia di miliardi di dollari. E’ una cosa che fa la differenza, specie per le piccole economie e in particolare per l’Europa orientale. Quindi considerato che si temeva un incontro vuoto, il G20 è stato positivo e importante. Chi pensava che si sarebbe potuto trovare un accordo su uno stimolo finanziario internazionale o chi credeva che ci poteva essere un accordo sulle future regolamentazioni finanziarie sa che l’incontro non ha prodotto nulla”.
La Grande Depressione. “Ciò che ha fatto diventare la Grande Depressione così terribile è stato il crollo, nel 1931, del sistema finanziario mondiale e gli stati hanno aumentato i tassi d’interesse. Continuo a pensare che sia improbabile assistere a una situazione così orribile. Abbiamo almeno fatto i passi utili a evitare un collasso del sistema finanziario e non credo che vedremo il tipo di politica monetaria del 1931. Non sono sicurissimo, perché penso che si tratti comunque di una recessione terribile, davvero terribile, la peggiore dai tempi della Grande Depressione. Ma a meno che non si riproducano gli eventi del 1931, questa non è una seconda Grande Depressione”.
Capitalismo. “Dobbiamo fare grandi cambiamenti. Ma non sono sicuro che a cambiare sarà il capitalismo, principalmente sarà il sistema finanziario. Ci sono altre cose che vorrei vedere cambiate. Vorrei vedere, da un punto di vista europeo, una composizione più socialdemocratica negli Stati Uniti, con una rete di sicurezza sociale molto più forte. Potrebbe succedere. Lo spero. Ma penso che succederà questo: come i nostri nonni, scopriremo che il sistema finanziario ha bisogno di essere davvero regolato e supervisionato con grande cautela. Abbiamo avuto cinquant’anni di attività bancarie noiose a causa dei cambiamenti che abbiamo fatto negli anni Trenta e il sistema è stato molto stabile. Dal 1980 in poi si è detto che tutto ciò scoraggiava l’iniziativa e l’innovazione. L’abbiamo cambiato, è diventato tutto molto più entusiasmante, ma è stato prodotto il disastro. Le banche devono tornare a essere noiose”.
Christian Rocca

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