New York. C’è grande speranza, a Washington, che Barack Obama possa riuscire nella formidabile impresa di riformare la sanità americana, rendendola più a buon mercato e accessibile a tutti i cittadini. E’ perlomeno dai tempi di Richard Nixon che i vari presidenti degli Stati Uniti promettono, e poi non riescono, di ampliare la copertura sanitaria degli americani, oggi garantita soltanto a poveri, bambini, anziani e per i servizi di pronto soccorso. Sono 46 milioni gli americani che non hanno nessuna copertura sanitaria, in un paese dove il 50 per cento della popolazione non paga tasse sui redditi.
Ogni volta che la Casa Bianca ha provato ad eliminare questa anomalia americana, è sempre stata costretta a fare marcia indietro per le differenze politiche tra i due partiti (“per l’idiozia dei democratici”, ha scritto il liberal Joe Klein su Time), ma soprattutto a causa dell’opposizione di un vasto schieramento di lobby e poteri forti, quello che gli stessi obamiani chiamano “complesso sanitario-industriale”, capace di sfruttare alla perfezione il terrore degli americani di dover rinunciare al loro pur imperfetto sistema, in cambio di code, attese e burocrazie tipiche dei sistemi sanitari pubblici come quelli europei e canadese.
Obama sta tentando una strada diversa, meno radicale di quella che nel 1993 stava facendo fallire la presidenza Clinton, più in armonia con le lobby del settore, come del resto aveva fatto George W. Bush, assieme alle industrie farmaceutiche, con il programma di fornitura gratuita delle medicine agli anziani. Il segnale che questa può essere la volta buona è arrivato ieri dalla Casa Bianca, da una riunione tra Obama e le lobby della sanità (medici, ospedali, assicurazioni, aziende farmaceutiche). Questa volta, il complesso sanitario industriale si è schierato a favore della riforma, anziché contro, probabilmente perché ha colto un cambiamento di clima a favore della copertura universale e quindi preferisce partecipare al tavolo della riforma, piuttosto che esserne escluso.
La lobby ha promesso a Obama un taglio dei costi della sanità per duemila miliardi di dollari in dieci anni con risparmi, entro cinque anni, di 2500 dollari per ogni famiglia americana. In realtà, più che di un taglio, si tratta di una riduzione dal 6 al 4,5 per cento della crescita dei costi già previsti. Oggi la spesa sanitaria è pari al 17 per cento del pil, se le lobby della salute manterranno la promessa nel 2019 la spesa aumenterà solo di un punto, anziché dei quattro preventivati.
L’offerta del complesso sanitario-industriale garantisce a Obama un alleato fondamentale per la sua riforma sanitaria in discussione al Congresso. Il risparmio promesso, i seicento miliardi di dollari già stanziati nel bilancio e un aumento delle tasse da sessanta miliardi di dollari sui grandi patrimoni, costituiscono il tesoro a disposizione della Casa Bianca per finanziare il sistema di copertura universale pubblica. I dettagli del piano non ci sono ancora, ma la strategia di Obama e della sua zarina della sanità, Nancy-Ann DeParle, si basa esattamente su questa vaghezza.
“Possiamo farcela, dobbiamo farla e la faremo entro la fine dell’anno”, ha detto ieri Obama, ma la riforma spetta al Congresso sulla base di una serie di indicazioni che tengano conto della riduzione degli sprechi, della libertà di scegliere medici e cure e della garanzia che il servizio sanitario sia di qualità e a prezzi accessibili. Il Nobel Paul Krugman non canta ancora vittoria, ma pensa che l’offerta delle lobby sia “la miglior notizia di politica che abbia sentito negli ultimi tempi”. Il saggista liberal Jonathan Cohn, esperto di sanità, ha detto che “è una gran cosa, se non altro per il segnale politico chiaro che manda”. L’analista Michael Cannon del Cato Institute, un centro studi iper liberista, ricorda però che la proposta proviene da una lobby industriale, cioè da chi considera gli alti costi come maggiori introiti: “E’ tutto troppo bello per essere vero”.
12 Maggio 2009