La maggioranza degli americani è favorevole a una riforma del suo complicato e costoso sistema sanitario, ma al tempo stesso è straordinariamente soddisfatta dalla qualità dei servizi e delle cure che riceve dai medici e dalle strutture ospedaliere private. Ampliare la copertura sanitaria è considerata una priorità nazionale, ma è bassissima la fiducia nelle capacità dello stato di fornire un servizio adeguato ed è altissimo il timore che possa finire per intralciare le scelte individuali dei cittadini.
Questa contraddizione dell’opinione pubblica statunitense spiega il caos politico che si crea a Washington, e nel resto del paese, ogni volta che un presidente prova a centralizzare non tanto la gestione delle cure o delle strutture sanitarie, come succede da noi, ma anche il semplice pagamento pubblico dei servizi sanitari forniti dai privati e scelti liberamente dai cittadini, come avviene in Canada e, in parte, anche in Europa.
Negli Stati Uniti, la salute non è un diritto garantito dalla Costituzione, ma un servizio che si paga e un business come molti altri. Quel 15,3 per cento del prodotto interno lordo (duemila e quattrocento miliardi di dollari), una percentuale più o meno doppia di quella dei paesi del G8, che gli americani spendono per la sanità contribuisce alla potenza economica del paese, esattamente come la quota dell’industria manifatturiera o metallurgica o elettronica. Senza considerare, dicono i sostenitori dello status quo, che è proprio la prospettiva del profitto a convincere le grandi corporation a investire ingenti somme di denaro nello sviluppo e nella ricerca di nuove cure, nuovi farmaci e nuove strumentazioni. Secondo Health Affairs, per dirne una, otto delle dieci più importanti scoperte mediche degli ultimi trent’anni sono state fatte in America.
I difetti del sistema però sono evidenti. In America c’è il numero più alto di persone non coperte da assistenza sanitaria del mondo sviluppato: quasi 46 milioni. C’è una qualità dei servizi non uniforme e i costi sono altissimi perché né i pazienti né i dottori hanno un reale interesse a controllare la spesa, visto che a pagare è un terzo soggetto, cioè le assicurazioni o il governo. Ma anche perché medici e ospedali devono assicurarsi per difendersi dalle “class action” dei pazienti ed evitare la bancarotta nel caso dovessero commettere un errore sanitario di qualche tipo.
C’è da aggiungere che circa cinque milioni di persone, a causa di “condizioni pre-esistenti”, non sono considerate “assicurabili” da chi vende le polizze e, almeno finora, lo stato non può impedirlo. C’è di più. Anche chi dispone di un’assicurazione spesso è costretto a estenuanti battaglie burocratiche per farsi pagare i conti o farsi autorizzare i preventivi dalle società assicuratrici.
Questa anomalia americana, incomprensibile a un europeo, non nasce da un’accurata programmazione politica e non è il prodotto di una precisa scelta ideologica, come si tende a pensare, anche se alla base c’è certamente il fatto che l’America è una federazione di stati, ciascuno dei quali geloso della propria sovranità e sospettoso di qualsiasi intervento nazionale centralizzato.
Il sistema, semmai, è il risultato di una serie di decisioni sconnesse che al momento in cui sono state prese sembravano innocue, ma che alla fine hanno avuto un impatto profondo sulla società. Il primo a immaginare un sistema di welfare sanitario è stato il presidente Theodore Roosevelt, tra il 1901 e il 1909, ma non ci riuscì. L’impianto attuale risale alla Seconda guerra mondiale, quando l’Amministrazione di Franklin Delano Roosevelt, in largo anticipo rispetto al resto del mondo, trovò un modo per favorire la copertura sanitaria degli americani.
Roosevelt stabilì che i “fringe benefit” forniti dalle imprese ai lavoratori, e tra essi anche le assicurazioni sanitarie, fossero esentati dai rigidi controlli sui salari imposti dall’Amministrazione durante la guerra. Sicché per attrarre i lavoratori, le aziende furono incoraggiate a offrire più copertura sanitaria ai dipendenti. La Casa Bianca e il Congresso, inoltre, decisero successivamente che i soldi spesi dalle aziende per comprare le polizze sanitarie ai propri impiegati non fossero soggetti a tassazione. Il risultato è stato la crescente domanda dei benefit da parte sia delle aziende sia dei lavoratori, visto che ogni dollaro pagato o ricevuto per coprire l’assicurazione sanitaria valeva più del dollaro ricevuto in busta paga e su cui, dopo, i dipendenti avrebbero dovuto pagare le tasse.
I lavoratori autonomi e chi perde il posto di lavoro devono invece ricorrere a un’assicurazione privata. La situazione è diventata difficile nel momento in cui i prezzi delle polizze assicurative sono aumentati: dal 2001 a oggi sono cresciuti del 78 per cento, molto di più sia degli stipendi sia dei prezzi. Alla fine degli anni Settanta, quasi il 70 per cento dei lavoratori americani era coperto da polizze fornite dalla propria azienda, ora soltanto il 50 per cento. Le aziende, inoltre, tendono a limitare i benefit sanitari per cercare di restare competitive rispetto ai concorrenti dei paesi dove la manodopera costa di meno e, peraltro, non gode di alcun tipo di assistenza sociale. Il paradosso, ha detto al New York Times un esperto di mercato del lavoro, è che gli americani privi di assicurazione sono esattamente coloro che consentono agli Stati Uniti di restare competitivi.
Non sono riusciti a cambiare le cose né John Kennedy né Jimmy Carter né Bill Clinton, tantomeno i presidenti repubblicani (anche se George W. Bush ha messo a carico dello stato federale le medicine per i pensionati). Soltanto Lyndon Johnson è stato capace di introdurre due grandi programmi federali, Medicare e Medicaid, che dagli anni Sessanta in poi garantiscono prevenzione e cura ad anziani, disabili e poveri che scelgono di aderire al sistema.
Il governo fornisce direttamente l’assistenza sanitaria ai militari e ai reduci di guerra in apposite e avanzatissime strutture ospedaliere gestite autonomamente da Washington. Gli impiegati pubblici sono coperti dallo stato. I quaranta milioni tra anziani e disabili, via Medicare, e i trentotto milioni di poveri, via Medicaid, possono contare su un’assicurazione sanitaria pagata dal governo. Un programma di aiuti federali e statali, chiamato Schip, garantisce la copertura di due milioni di bambini che vivono in famiglie al di sopra della soglia di povertà, ma nonostante questo sprovviste di un piano assicurativo.
L’esercito di non assicurati riceve comunque, in modo gratuito e per legge, l’assistenza urgente nei pronto soccorso degli ospedali, il cui costo ovviamente va a gonfiare gli alti premi assicurativi pagati dagli altri americani.
L’esercito di non assicurati ammonta a 45 milioni e settecentomila persone, dieci milioni dei quali però non sono cittadini americani (spesso sono lavoratori stranieri irregolari). In totale stiamo parlando di più del 15 per cento della popolazione statunitense. Chi non ha l’assicurazione generalmente o ha perso il lavoro o è impiegato in un’azienda che non offre questo benefit, oppure non si può permettere il costo della polizza. In totale sono poco più della metà dei non assicurati, mentre circa un quinto dei quasi 46 milioni sceglie per vari motivi di non acquistare una polizza, probabilmente perché è giovane e in buona salute. Un quarto, invece, avrebbe diritto a ricevere l’assistenza pubblica, tramite Medicare, Medicaid e Schip, ma non lo sa oppure preferisce rifiutarla. Altri ancora si affidano alle opere pie e alle strutture caritatevoli.
Barack Obama sta provando con passione e convinzione a ridurre il numero dei non assicurati, come aveva promesso in campagna elettorale, utilizzando un approccio più pragmatico rispetto a quello ideologico di Hillary Clinton che, nel 1993, stava per travolgere l’Amministrazione di suo marito.
Obama non ha voluto imporre una sua soluzione specifica, e anzi non s’è ancora capito quali siano davvero le sue preferenze, per evitare di far innervosire deputati e senatori. A opporsi al suo progetto non sono, come si dice stancamente, le grandi lobby e i repubblicani. O, perlomeno, non sono solo loro. Intanto le lobby farmaceutiche sono schieratissime con il presidente e hanno pure stanziato cento milioni di dollari, più di quanto ha speso John McCain per la sua campagna presidenziale, per sostenere la riforma della Casa Bianca. Ma anche le compagnie assicurative hanno fiutato un business mica da ridere, visto che qualcuno dovrà fornire l’assicurazione a questi 46 milioni di non assicurati.
Se è vero che i repubblicani, in modo abbastanza compatto, sono contrari all’Obamacare perché preferiscono affidarsi al mercato e agli incentivi fiscali per comprare le polizze, è altrettanto vero che alla Camera e al Senato i conservatori non hanno i numeri per fermare, e nemmeno per ostacolare, i piani di riforma del presidente e del suo partito. In realtà c’è una sessantina di deputati democratici moderati che non ne vuole sapere, soprattutto della famigerata “public option”, ovvero l’ipotesi che lo stato possa intervenire direttamente a fornire copertura sanitaria a chi oggi non ce l’ha perché non si può permettere quella privata.
Sarebbe un evento rivoluzionario per l’America e la farebbe avvicinare al modello misto (lo stato paga l’assistenza fornita da privati) in vigore in Canada dal 1971, una soluzione che però si porta dietro lo spauracchio delle lunghe attese in corsia e della discrezionalità dello stato, non più individuale, nell’autorizzare o meno cure, visite, interventi. Un approccio simile è stato già tentato in Massachusetts, quattro anni fa, dall’allora governatore repubblicano Mitt Romney, ma i risultati non sono soddisfacenti, nemmeno per i democratici.
La “public option” potrebbe passare alla Camera d’un soffio, ma non sembra avere possibilità al Senato, dove secondo gli ultimi conteggi sono tra 37 e 45 (su 100) i senatori, tutti democratici, favorevoli. Soprattutto è decisamente contraria l’opinione pubblica, al punto da aver trascinato in basso anche l’indice di gradimento di Obama, oggi al 51 per cento, dopo i fasti di qualche mese fa. La Casa Bianca ha provato a dire che la “public option” non è un elemento fondamentale, perché l’obiettivo della riforma non è quello di affidare allo stato la gestione sanitaria, ma di diminuire il numero degli americani privi di assistenza. Un risultato, dicono alla Casa Bianca, che si può ottenere anche regolamentando il settore delle polizze e costringendo le società assicuratrici ad adeguarvisi.
Un’altra falla nel piano Obama si è aperta a causa di un’intuizione propagandistica di Sarah Palin, la candidata repubblicana alla vicepresidenza dell’anno scorso. Palin si è fiondata su uno dei punti centrali del progetto democratico: la strategia di riduzione dei costi della sanità per pagare la copertura universale che passa necessariamente attraverso il razionamento dei servizi sanitari.
La proposta di legge prevede il rimborso governativo ai medici che offrono consulti sulla end-of-life, cioè sull’eventualità di sospendere le cure, a prescindere dall’espressa richiesta del malato. Una norma certamente controversa, ma che nell’infuocato linguaggio di Sarah Palin si è trasformata nell’accusa di voler istituire fantomatici “consigli per la morte” per sbarazzarsi di anziani e malati terminali e far risparmiare le casse federali. L’accusa non sta in piedi, ma a Obama il colpo è arrivato.
Ma è la mezza marcia indietro di Obama sull’opzione pubblica, una questione decisiva per la sinistra liberal d’America, ad aver provocato i maggiori dispiaceri al presidente e ad aver scatenato numerosi malumori tra i suoi, ben visibili nelle pagine degli editoriali dei grandi giornali e nei talk show televisivi. La sinistra accusa il presidente di essere troppo cauto, di procedere con troppa moderazione, di aver sprecato la grande e storica occasione che gli è stata offerta dalla sua elezione e dalla grande maggioranza democratica al Congresso.
L’ex ministro del Lavoro di Clinton, Bob Reich, sta organizzando una marcia di protesta a Washington. Il comico Jon Stewart ha preso a male parole il presidente. “Dov’è finito Mr. Cambiamento”, ha scritto sul Washington Post l’editorialista obamiano di sinistra Eugene Robinson. Forse, ha scritto, “rinunciare alla public option è un espediente”, grazie al quale Obama può ottenere gli strumenti per razionalizzare l’attuale sistema, “ma non abbiamo eletto Obama per diventare un presidente d’espedienti. Lo abbiamo eletto per diventare un grande presidente”
Christian Rocca
22 Agosto 2009