Kazuo Ishiguro, Non lasciarmi, Einaudi, 2006
Non l’avevo letto quando è uscito l’originale Never let me go nel 2005 , ma ho voluto farlo adesso, prima di vedere l’omonimo film, perché , in casi come questi, temo che la mia immaginazione letteraria venga influenzata dalla cinematografia . Sono bastate poche ore per finire una storia d’amore e d’amicizia tra tre ragazzi che sarebbe piuttosto banale, se non fosse per la costruzione con cui Ishiguro sapientemente e con delicatezza rivela particolari che creano una triste atmosfera di mistero.
Il libro si apre con Kathy H. (notare la sola iniziale del cognome) l’io narrante, poco più che trentenne, che ricorda l’infanzia e l’adolescenza trascorse nel collegio di Hailsham nella campagna inglese . Come in tante scuole del genere in Inghilterra, gli allievi si sentono una comunità a parte, legati da un forte senso di appartenenza, i genitori sono inesistenti, la formazione è anche educazione alla vita , comprese le lezioni di sessualità , creatività e arte . Fin qui tutto normale, salvo alcuni termini con cui Kathy, tra un ricordo e l’altro, accenna al proprio lavoro. Fin dalla prima pagina dice di essere una “assistente” talmente brava che anche alla “quarta donazione” i suoi “donatori” non si “agitano” e restano “calmi”. Più in là veniamo a sapere che gli studenti di Hailsham sono “speciali”, non possono avere bambini, e, lasciato il college, dovranno prepararsi ad affrontare le prime “donazioni”. Poco dopo, Kathy lascia trapelare “di non essere particolarmente di buon umore perché un mio paziente ha appena completato la notte precedente”. Siamo a poco più di un terzo del libro , l’amicizia, l’amore, la gelosia fra Kathy, Tommy e Ruth sono sempre in primo piano, ma con poche parole Ishiguro ci ha già catturato in una nuova inquietante dimensione. Agghiacciati dalla prospettiva che si profila e che ormai è ben chiara ai protagonisti come a noi, proseguiamo con la lettura mentre il racconto passa dalle piovose giornate in campagna alle asettiche stanze ospedaliere. Cerchiamo una svolta, un capovolgimento, soprattutto un segno di ribellione dei protagonisti a un destino apparentemente segnato da dolore e morte. Una piccola speranza si accende, poi subito si spegne.
In un’intervista Ishiguro spiega che il malinconico racconto di Kathy è una metafora della condizione che ci accumuna tutti: la consapevolezza che il tempo davanti a noi è limitato, che anche noi ineluttabilmente “completiamo”. Nulla ci può proteggere dalla fine, neanche l’amore. E qui sta il punto debole del suo romanzo, peraltro scritto con la consueta maestria: il senso di ineluttabilità della visione di Ishiguro si abbatte sulla trama, immobilizzandola. La storia inizialmente intrigante, alla lunga si arena come la vecchia barca spiaggiata che appare nelle pagine finali del libro. Vero è che lo scrittore mi ha catturato fino all’ultimo, ma sono arrivata alla fine con un vago senso di delusione. Che poi si è accentuato con il film. La sceneggiatura infatti non riesce a tradurre efficacemente l’iniziale atmosfera di mistero del libro : mi ha lasciata annoiata in poltrona, malgrado l’ottima recitazione dei giovani attori.